Il Consiglio di Stato riconosce la legittimità del P.I.T. della Regione Toscana.
Recentissima pronuncia del Consiglio di Stato in merito al Piano di indirizzo territoriale (P.I.T.) con valenza di piano paesaggistico della Regione Toscana.
La sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 20 agosto 2021, n. 5964 ha confermato la sentenza T.A.R. Toscana, Sez. I, 19 marzo 2020, n. 342, che aveva respinto il ricorso di numerose associazioni ambientaliste incentrato sulla segnalata illegittimità delle disposizioni che consentivano la prosecuzione o la riapertura dell’attività estrattiva nelle c.d. aree contigue del parco naturale regionale delle Alpi Apuane.
In primo luogo, il Consiglio di Stato riafferma che “le ‘Aree Contigue di Cava’ non sono funditus parte del Parco stesso, pur se geograficamente collocate entro il relativo perimetro” e indica le finalità dell’istituzione dell’Area naturale protetta regionale dove “la tutela dei valori naturalistici non è un valore finale ed assoluto, bensì funzione di un obiettivo ulteriore (‘il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali’), ma, oltretutto, essa deve armonizzarsi con il concorrente profilo della ‘realizzazione di un equilibrato rapporto tra attività economiche ed ecosistema’.”.
Conseguentemente, al contrario di quanto sostenuto in sede di appello, “non emerge …una sistematica ed assoluta prevalenza normativa del valore naturalistico in quanto tale, cui tutti gli altri concorrenti interessi debbano necessariamente ed imprescindibilmente sottostare: al contrario, la legge mira al conseguimento di un rapporto ‘equilibrato’ fra le esigenze di tutela ambientale lato sensu intese e le attività antropiche, nel prioritario interesse della popolazione locale. Peraltro, le attività di escavazione sono tradizionali della zona e risultano ivi svolte da secoli, ciò che ne disvela un autonomo rilievo culturale ed identitario, che non ne rende macroscopicamente illogica la protezione o, quanto meno, la considerazione normativa”.
La legge regionale Toscana n. 65/1997 e la precedente legge regionale Toscana n. 5/1985 istitutive e regolatrici del parco naturale regionale delle Alpi Apuane non presentano nemmeno profili di illegittimità costituzionale con la previsione dell’attività estrattiva nelle c.d. aree contigue, perché esse sono esterne all’area naturale protetta per disposizione del Legislatore regionale, così come consentito dalla normativa quadro nazionale artt. 11 e 32 della legge n. 394/1991 e s.m.i.).
Nello specifico, sono, inoltre, fatte salve dall’attività estrattiva le aree rientranti nella Rete Natura 2000 (S.I.C., Z.P.S., Z.S.C.), in quanto “l’atto impugnato impone che tali attività ‘non devono incidere con SIC, SIR e ZPS’, ciò che con ogni evidenza rimanda ad impatti di tipo anche indiretto, che debbono ritenersi, dunque, parimenti vietati, con conseguente ulteriore dimostrazione dell’irrilevanza della questione”, conseguentemente non si rende necessaria alcuna procedura di valutazione di incidenza ambientale preventiva all’autorizzazione dell’attività estrattiva o alla sua prosecuzione (riferibile, comunque, al progetto di singola attività estrattiva).
Sul punto era incentrato l’intervento ad adiuvandum effettuato dal GrIG (febbraio 2020) nel giudizio di primo grado.
Viene, così, sancita la legittimità del P.I.T. in relazione alla previsione dell’attività estrattiva sulle Alpi Apuane, nei limiti e con i criteri indicati nell’atto di pianificazione.
D’altro canto, il Giudice amministrativo toscano aveva nettamente respinto le censure di legittimità avanzate da numerose Società estrattive avverso il P.I.T. (vds. sentenza T.A.R. Toscana, Sez. I, 21 luglio 2017, n. 944, non appellata).
I piani paesaggistici adeguati alle prescrizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio (artt. 135 e ss. del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) sono quelli della Sardegna (2006), della Puglia (2015), della Toscana (2015), del Piemonte (2017), del Friuli – Venezia Giulia (2018) e del Lazio (2021).
Tuttora sono molto pochi, purtroppo.
Gruppo d’Intervento Giuridico odv
N. 05964/2021 REG.PROV.COLL.
N. 06741/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6741 del 2020, proposto dall’associazione Mountain Wilderness Italia Onlus, dall’associazione Amici della Terra Italia Onlus, dall’associazione Verdi Ambiente e Società – V.A.S. Onlus, dall’associazione Centro Guido Cervati, dall’associazione Centro Culturale La Pietra Vivente, dall’associazione Club Alpino Italiano – Regione Toscana, in persona del rispettivo legale rappresentante pro tempore, rappresentate e difese dall’avvocato Daniele Granara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 154/3de,
contro
– la Regione Toscana, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Lucia Bora e Barbara Mancino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Marcello Cecchetti in Roma, piazza Barberini, 12;
– il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
– la Regione Toscana, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Lucia Bora e Barbara Mancino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Marcello Cecchetti in Roma, piazza Barberini, 12;
– il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
della società Henraux S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Cristiana Carcelli e Natale Giallongo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Paolo Gallinelli in Roma, via Pompeo Magno, 7,
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, Sezione Prima, n. 342 del 19 marzo 2020, resa tra le parti, concernente l’atto di integrazione del Piano di Indirizzo Territoriale (PIT) con valenza di piano paesaggistico della Regione Toscana.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Toscana, del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo e della società Henraux S.p.a.;
Visto il ricorso incidentale proposto dalla Regione Toscana;
Visti tutti gli atti della causa;
Viste le note di udienza depositate da tutte le parti costituite in data 7 luglio 2021;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 luglio 2021, svoltasi da remoto ai sensi dell’art. 25 d.l. n. 137 del 2020, il Cons. Luca Lamberti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Otto associazioni (Mountain Wilderness Italia Onlus, Società Italiana di Geologia Ambientale – Sigea, Amici della Terra Italia Onlus, Verdi Ambiente e Società – V.A.S. Onlus, Onlus Lipu – Lega Italiana Protezione Uccelli, Centro Guido Cervati, Centro Culturale La Pietra Vivente e Club Alpino Italiano – Regione Toscana) hanno impugnato con ricorso straordinario, poi trasposto avanti il T.a.r. per la Toscana, la delibera del Consiglio regionale della Toscana n. 37 del 27 marzo 2015, recante l’approvazione dell’atto di integrazione del PIT (Piano di Indirizzo Territoriale) con valenza di Piano paesaggistico, nella parte in cui consente l’apertura di nuove cave, la riattivazione di cave dismesse e l’ampliamento di cave esistenti nei bacini estrattivi siti all’interno del Parco naturale delle Alpi Apuane, in particolare nelle zone indicate come “Aree Contigue di Cava”.
Si sono costituiti in resistenza la Regione Toscana, il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo e la società Henraux S.p.a., quest’ultima gerente attività estrattiva all’interno del Parco.
In corso di causa sono intervenute ad adiuvandum altre due associazioni, il Club Alpino Italiano (CAI) ed il Gruppo di Intervento Giuridico Onlus.
2. Con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r. ha così deciso:
a) ha rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse formulata dalla Regione, secondo la quale “il suo accoglimento comporterebbe l’annullamento delle misure di tutela contenute nel piano impugnato, provocando quindi un effetto lesivo dell’interesse tutelato dai ricorrenti”: in proposito, il T.a.r. ha viceversa sostenuto che “la questione non può essere condivisa, in quanto oggetto dell’impugnazione sono alcune norme del piano, che autorizzano lo svolgimento di attività di cava. Di conseguenza, l’accoglimento dell’impugnazione comporterebbe l’annullamento di disposizioni che le ricorrenti ritengono lesive degli interessi da loro tutelati e il conseguente blocco dell’attività nelle cave in questione”; del resto, “le parti ricorrenti mirano a ottenere una disciplina di piano che escluda in radice l’attività di cava nelle aree di cui si tratta”.
b) nel merito, ha premesso che “le cave di cui si discute non sono collocate all’interno del Parco Nazionale delle Alpi Apuane, ma ai suoi confini. Il territorio del Parco non è circondato da una fascia di salvaguardia; la suddetta fascia è invece ricompresa all’interno del territorio del Parco. E’ vero, quindi, che le cave di cui si tratta sono confinanti con il Parco, ma non con il <<cuore>> del Parco; confinano, invece, con la fascia di rispetto”; sulla scorta di tale assunta conformazione dei luoghi, il T.a.r. ha rilevato che “i ricorrenti affermano che l’inclusione all’interno del territorio del Parco della fascia di rispetto incide negativamente sulla tutela del suo pregio naturale e paesistico e rende illegittima la collocazione di cave al suo confine”;
b1) in proposito, il T.a.r. ha, tuttavia, ritenuto che “i ricorrenti non spiegano su quale aspetto sostanziale, di difesa del territorio, tale scelta incida negativamente. In altri termini, la doglianza poteva essere condivisa qualora le parti ricorrenti avessero dimostrato che l’impostazione seguita dalla Regione diminuisce in concreto la tutela del territorio. Tale dimostrazione è invece mancata e la tesi dei ricorrenti è in realtà basata su una affermazione non condivisibile: la collocazione delle aree di cava ai confini della fascia di rispetto è illegittima perché la suddetta area è interna al Parco, mentre doveva essere esterna al suo territorio”; di converso, “i ricorrenti nemmeno affermano che la scelta di ricomprendere la fascia di rispetto all’interno del territorio del Parco diminuisca la tutela complessiva del suo territorio”
b2) la Regione avrebbe legittimamente omesso la valutazione di incidenza “di cui all’art. 5, terzo comma, del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, in quanto il piano paesistico, per la sua natura e finalità, necessariamente non prevede azioni incidenti negativamente sugli habitat naturali”;
b3) peraltro, “il Piano per la prima volta regolamenta attività in precedenza sostanzialmente libere, introducendo quindi forme di tutela prima assenti”, in particolare prevedendo che “le nuove attività estrattive, la riattivazione delle cave dismesse, gli ampliamenti di attività estrattive esistenti e le variazioni di carattere sostanziale di attività esistenti non possano interferire con SIC, SIR e ZPS, in tal modo rispondendo alle preoccupazioni manifestate dai ricorrenti”;
b4) il Piano sottoporrebbe a “specifica disciplina di tutela … i beni assoggettati a vincolo paesistico generico ai sensi dell’art. 143 del d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42” e, oltretutto, sarebbe stato “oggetto di copianificazione con il Ministero per la parte che li riguarda”;
b5) l’accorpamento dei “procedimenti di valutazione di compatibilità paesistica con quelli di VIA e di autorizzazione paesaggistica”, lungi dal provocare una “indebita commistione di procedimenti destinati a rimanere autonomi, provocando un’insufficiente istruttoria rispetto a tutti gli aspetti da esaminare”, risponderebbe di contro all’esigenza di “semplificazione dei procedimenti” e costituirebbe “uno strumento di migliore coordinamento e maggiore approfondimento, atteso che quanto acquisito in ciascuna fase procedimentale contribuisce al maggior all’approfondimento delle altre tematiche”;
b6) la VAS, strumento ampiamente discrezionale, sarebbe stata censurata dalle ricorrenti non per “l’impianto complessivo”, ma solo per “alcuni aspetti ritenuti problematici”, che non ne inficerebbero la complessiva tenuta;
b7) non vi sarebbero, infine, i presupposti né per sollevare una questione di legittimità costituzionale, né per rimettere alla Corte di giustizia dell’Unione europea una questione di interpretazione con riferimento alla “normativa applicata dalle Amministrazioni che hanno proceduto, e principalmente, come ovvio, dalla Regione Toscana”.
3. Sei delle associazioni originarie ricorrenti hanno interposto appello, riproponendo criticamente le censure di prime cure.
Si sono costituite in resistenza la Regione Toscana, la società Henraux S.p.a. ed il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo.
La Regione Toscana ha, altresì, svolto appello incidentale con riferimento alla reiezione, da parte del T.a.r., dell’eccezione di inammissibilità del ricorso di prime cure per carenza di interesse, mentre la società Henraux, premesso di avere gravato a sua volta l’atto integrativo del PIT (il relativo ricorso avverso la sentenza sfavorevole del T.a.r., allibrato al n. 3929 del 2018, penderebbe avanti questa Sezione e non sarebbe, allo stato, ancora stato fissato), ha riproposto le svariate eccezioni di inammissibilità – riferite sia al ricorso radicato in prime cure dalle associazioni, sia all’intervento in tale sede di terzi – formulate in primo grado ma non esaminate dal T.a.r..
Con l’ordinanza n. 5852 del 2 ottobre 2020, emanata all’esito della camera di consiglio del 1 ottobre 2020, l’istanza cautelare formulata dalle appellanti principali è stata respinta con la seguente motivazione: “Osservato che, in disparte la valutazione del merito, non consta allo stato un attuale pregiudizio, atteso che il Piano impugnato non autorizza, ex se, alcun concreto e specifico intervento”.
In vista della trattazione del ricorso le appellanti, la Regione e la società Henraux hanno depositato difese scritte.
Il ricorso è stato introitato in decisione alla pubblica udienza dell’8 luglio 2021.
4. L’appello principale è, per le ragioni che seguono, infondato: conseguentemente, da un lato l’appello incidentale della Regione è improcedibile, dall’altro può omettersi lo scrutinio delle eccezioni pregiudiziali formulate in primo grado da Henraux, non esaminate dal T.a.r. ed in questa sede riproposte.
Può, altresì, prescindersi dalla valutazione di ammissibilità delle produzioni documentali operate dalle parti nel presente grado di giudizio, in quanto comunque irrilevanti ai fini della decisione.
5. Il Collegio, attenendosi al dovere di cui all’art. 3, comma 2, c.p.a., osserva anzitutto che l’atto oggetto del presente giudizio:
– ha natura pianificatoria (significativo, in proposito, il fatto che è stato emanato sulla scorta dell’art. 19 l.r. n. 65 del 2014, che definisce le procedure di adozione ed approvazione degli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica, fra i quali il precedente art. 16 annovera appunto “il PIT e le sue varianti”, ed è stato pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Toscana fra gli “atti di programmazione”) e, come tale, rappresenta l’esito di scelte amministrative generali connotate da lata discrezionalità, sindacabili in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di macroscopica illogicità, che è onere di parte ricorrente evidenziare con precisione;
– non autorizza, ex se, alcuno specifico intervento, ma, di contro, si limita a fissare un perimetro pianificatorio generale circa, fra l’altro, le attività economiche esercitabili nel contesto, che rimangono sottoposte alla necessità del previo ottenimento dei necessari assensi amministrativi;
– mira ad incrementare la tutela dell’ambiente e, per tale finalità, introduce condizionamenti e limiti per le attività produttive e, per quanto qui interessa, estrattive (v. infra) prima non previsti, tanto che è stato impugnato, proprio per la prospettica incidenza sulle attività di cava, dalla stessa società Henraux.
5.1. Più in particolare, all’art. 17 l’atto impugnato dispone, in linea generale, che:
– “a far data dall’approvazione del presente piano, i contenuti del Piano paesaggistico costituiscono riferimento per la valutazione … di compatibilità paesaggistica [specificamente qualificata come “condizione vincolante per il rilascio delle autorizzazioni”] delle nuove attività estrattive, della riattivazione di cave dismesse, degli ampliamenti di attività estrattive esistenti e delle varianti di carattere sostanziale di attività esistenti”;
– la valutazione di compatibilità paesaggistica si svolge, di regola, anche per “le istanze di ampliamento fino al 30% del volume assentito nell’autorizzazione vigente”, nonché per “gli adeguamenti di minima entità non ricompresi negli ampliamenti di cui sopra che non comportino modifiche all’assetto definitivo del sito, né modifiche delle geometrie e delle tecniche di escavazione in sotterraneo”;
– “le nuove attività estrattive, la riattivazione di cave dismesse, gli ampliamenti e le varianti di carattere sostanziale di attività esistenti non devono incidere con SIC, SIR e ZPS”, né, fra l’altro, con “crinali e vette di interesse paesaggistico”.
5.2. Nelle specifiche “Norme per i bacini estrattivi delle Alpi Apuane”, poi, l’atto impugnato reca tutta una serie di prescrizioni di dettaglio, fra cui:
– il divieto di attività estrattiva finalizzata alla produzione di inerti;
– il divieto di realizzazione di discariche di cava e la limitazione del “deposito provvisorio” a tassative ipotesi;
– la conformazione dello svolgimento dell’attività “in modo da garantire la sostenibilità degli effetti ed il corretto sfruttamento della risorsa lapidea”;
– la subordinazione delle nuove attività estrattive e della riattivazione di cave dismesse all’approvazione di un Piano attuativo, deputato, tra l’altro, a “individuare le quantità sostenibili”, enucleate anche in funzione del raggiungimento di una quota minima di lavorazioni “in filiera corta”, al fine di garantire “il sostegno economico alla popolazione locale”.
6. Orbene, come del resto emerge chiaramente dalle “Schede dei bacini estrattivi delle Alpi Apuane” (pag. 4) annesse all’atto impugnato, le “Aree Contigue di Cava” non sono funditus parte del Parco stesso, pur se geograficamente collocate entro il relativo perimetro (analogamente, per vero, è previsto per i centri urbani insistenti all’interno del perimetro del Parco, v. infra): la l.r. n. 65 del 1997, con cui a suo tempo fu istituito l’Ente Parco, ha infatti escluso le “Aree Contigue di Cava” dall’area naturale protetta (cfr. del resto, lo stesso atto di appello, pagg. 7 e 8).
Conseguentemente, l’atto in questa sede impugnato, avente natura amministrativa, si è limitato a prendere atto di questa realtà normativa sovra-ordinata, prescrivendo comunque le cennate misure conformative, finalizzate ad armonizzare l’attività estrattiva alle esigenze di tutela dell’ambiente e del paesaggio circostanti.
7. Quanto, più in particolare, alla disciplina legislativa regionale, il Collegio rileva quanto segue.
L’articolo 1 l.r. n. 65 del 1997:
– istituisce l’Ente di diritto pubblico denominato “Parco regionale delle Alpi Apuane”;
– stabilisce che tale Ente è “preposto alla gestione del Parco delle Alpi Apuane, già istituito con L R. 21 gennaio 1985 n. 5 e successive modificazioni”;
– stabilisce che “l’ente persegue il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali mediante la tutela dei valori naturalistici, paesaggistici ed ambientali e la realizzazione di un equilibrato rapporto tra attività economiche ed ecosistema”;
– dispone che “il territorio del Parco è delimitato dalla cartografia del Piano per il Parco di cui al successivo articolo 14. Non sono compresi nel territorio del Parco i centri edificati interclusi, comprensivi delle zone previste come edificabili negli strumenti urbanistici vigenti alla data di entrata in vigore del Piano. Questi fanno parte dell’area contigua del Parco di cui all’art. 32 della L. 394/1991. Fanno parte altresì dell’area contigua i territori delimitati come tali nella cartografia del Piano”.
In definitiva, è stato direttamente il legislatore regionale a perimetrare il Parco e, dunque, anche le “Aree Contigue di Cava” in cui è consentita l’attività estrattiva, la cui esistenza ed ubicazione, pertanto, non possono essere ascritte, quale assunto vizio della funzione, all’atto impugnato, che viceversa le ha mutuate dalla legislazione regionale.
E’, poi, sempre lo stesso legislatore regionale ad aver stabilito che il Parco è volto al fine del “miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali”, di cui, a ben vedere, sono strumento tanto “la tutela dei valori naturalistici, paesaggistici ed ambientali”, quanto “la realizzazione di un equilibrato rapporto tra attività economiche ed ecosistema”.
Non solo, dunque, la tutela dei valori naturalistici non è un valore finale ed assoluto, bensì funzione di un obiettivo ulteriore (“il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità locali”), ma, oltretutto, essa deve armonizzarsi con il concorrente profilo della “realizzazione di un equilibrato rapporto tra attività economiche ed ecosistema”.
Non emerge, dunque, una sistematica ed assoluta prevalenza normativa del valore naturalistico in quanto tale, cui tutti gli altri concorrenti interessi debbano necessariamente ed imprescindibilmente sottostare: al contrario, la legge mira al conseguimento di un rapporto “equilibrato” fra le esigenze di tutela ambientale lato sensu intese e le attività antropiche, nel prioritario interesse della popolazione locale.
Peraltro, le attività di escavazione sono tradizionali della zona e risultano ivi svolte da secoli, ciò che ne disvela un autonomo rilievo culturale ed identitario, che non ne rende macroscopicamente illogica la protezione o, quanto meno, la considerazione normativa.
Ne consegue che l’assunto di parte appellante, secondo cui l’attività di cava sarebbe eo ipso incompatibile con le esigenze di conservazione del territorio, oltre a non essere puntualmente dimostrato, cozza con le stesse previsioni di legge e con la ratio generale sottesa all’istituzione dell’area naturale de qua, priva di un intento eradicativo di attività ivi svolte da secoli e fonte di ricchezza per le popolazioni locali.
8. Quanto alla questione di legittimità costituzionale di siffatta normativa regionale, svolta con riferimento agli articoli 9, 32 e 117, comma 2, lett. s), della Carta Fondamentale, è sufficiente osservare, a dimostrazione della manifesta infondatezza della medesima, che l’art. 32, comma 1, della l. n. 394 del 1991 stabilisce che “le regioni, d’intesa con gli organismi di gestione delle aree naturali protette e con gli enti locali interessati, stabiliscono piani e programmi e le eventuali misure di disciplina della caccia, della pesca, delle attività estrattive e per la tutela dell’ambiente, relativi alle aree contigue alle aree protette, ove occorra intervenire per assicurare la conservazione dei valori delle aree protette stesse”; non ha, dunque, ab imis rilievo nella fattispecie il disposto dell’art. 11, comma 3, l. n. 394 del 1991, più volte citato dalle appellanti, recante il divieto di “apertura e esercizio di cave, di miniere e di discariche, nonché di asportazione di minerali” all’interno delle aree protette, giacché la materia del contendere attiene alle attività esercitabili nelle “Aree Contigue di Cava”, poste all’esterno dell’area protetta.
In sostanza, la normativa statale consente espressamente l’attività estrattiva, sia pure a determinate condizioni, nelle “aree contigue” alle “aree naturali protette”, demandandone la relativa disciplina alle Regioni.
Non si apprezza, pertanto, né un contrasto fra legge regionale e legge statale (art. 117), né una lesione dei valori di tutela del paesaggio, dell’ambiente e della salute (artt. 9 e 32): la l.r. n. 65 del 1997, infatti, consente l’attività estrattiva nel Parco delle Alpi Apuane soltanto nelle “Aree Contigue di Cava” (cfr. articolo 21; v. anche il successivo art. 31), in perfetta assonanza con le prescrizioni nazionali, che le appellanti, tuttavia, non tacciano di incostituzionalità.
Di converso, la normativa statale non impone che le “aree contigue” siano necessariamente esterne al perimetro dell’area protetta: non è, pertanto, indice di un uso incongruo della potestà legislativa regionale l’individuazione di “aree contigue” situate all’interno del perimetro del parco.
Del resto, la prossimità all’area protetta, carattere che connota e qualifica le “aree contigue”, può predicarsi con riferimento sia a zone esterne al Parco ma con esso confinanti, sia a zone ricavate all’interno del perimetro del Parco, ove espressamente ed ab origine dichiarate estranee ad esso: agli effetti di causa, tali aree possono essere considerate “interne” al Parco – come ripetutamente affermano le appellanti – solo in senso meramente descrittivo e geografico, ma non anche giuridico.
Peraltro, tale circostanza è tutt’altro che incongrua, se solo si consideri la stratificazione storica e culturale del territorio italiano, che presenta diffusi segni di risalente antropizzazione che ne pervadono pressoché tutta l’estensione.
Conseguentemente, quanto più è vasta l’area naturalistica che si intende sottoporre a tutela, tanto più è probabile che, all’interno del relativo perimetro, vi siano aree insuscettibili di armonizzazione con le incipienti norme di protezione (si pensi, appunto, a centri abitati o alle aree deputate ad attività economiche ivi esercitate da secoli, come appunto le cave delle Alpi Apuane).
9. Le esposte argomentazioni privano ab interno di rilevanza la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Invero, le disposizioni regionali non determinano affatto un peggioramento delle condizioni di tutela dei SIC e delle ZPS rispetto agli standard unionali, giacché non consentono lo svolgimento di attività estrattiva all’interno di SIC e ZPS; oltretutto, l’atto impugnato impone che tali attività “non devono incidere con SIC, SIR e ZPS”, ciò che con ogni evidenza rimanda ad impatti di tipo anche indiretto, che debbono ritenersi, dunque, parimenti vietati, con conseguente ulteriore dimostrazione dell’irrilevanza della questione.
10. Non consta, poi, che l’atto impugnato vulneri i vincoli paesaggistici insistenti in loco, sia perché le “Aree Contigue di Cava” non interessano direttamente zone vincolate, sia perché il relativo regime autorizzativo presuppone comunque l’accertamento della generale compatibilità paesaggistica (v. supra).
Oltretutto, in linea generale l’apposizione di un vincolo paesaggistico non determina l’assoluta e radicale nullificazione ex lege delle facoltà di uso del bene, la cui compatibilità con le ragioni sottese al vincolo è, di contro, rimessa alla valutazione discrezionale dell’autorità preposta.
Analogamente deve dirsi per quanto attiene alle zone interessate da usi civici.
11. Non si apprezza, inoltre, alcuna “illegittima commistione di procedimenti” (“autorizzazione paesaggistica, V.I.A. e valutazione di compatibilità paesaggistica delle attività estrattive prevista dal PIT”) tale da aver determinato una surrettizia “falcidia procedimentale”, avendo semplicemente la Regione valorizzato il principio della massima semplificazione procedimentale, precipitato tecnico del dovere di economicità gravante su ogni Amministrazione (cfr. art. 1, l. n. 241 del 1990).
Del resto, parti appellanti non chiariscono quale preciso vulnus sostanziale tale semplificazione abbia arrecato, limitandosi a sostenere che il giudice di prime cure avrebbe dovuto “rilevare l’incompatibilità paesistica e ambientale” delle attività estrattive, in tal modo de facto sostituendosi all’Amministrazione ed impingendo nel merito pianificatorio, sottratto al sindacato giurisdizionale.
12. La mancanza della valutazione di incidenza consegue al fatto che l’atto impugnato non solo non reca previsioni puntuali atte ad incidere direttamente sugli habitat naturali (per vero, non individuate neppure da parte appellante, che si limita a sostenere l’intrinseco effetto negativo delle attività estrattive in quanto tali), ma prescrive espressamente, per quanto qui di interesse, che “le nuove attività estrattive, la riattivazione di cave dismesse, gli ampliamenti e le varianti di carattere sostanziale di attività esistenti non devono incidere con SIC, SIR e ZPS”: difettano, dunque, i presupposti per procedere a valutazione di incidenza, che avrebbe viceversa rappresentato un indebito aggravamento del procedimento (art. 1, l. n. 241 del 1990).
Oltretutto, la valutazione di incidenza costituisce parte del complessivo iter autorizzatorio della singola iniziativa estrattiva (arg., a contrario, dall’art. 17 dell’atto impugnato).
13. Quanto alla mancata considerazione degli effetti dell’inquinamento fluviale da marmettola, è sufficiente evidenziare che nell’atto impugnato e nella documentazione annessa è fatto espresso riferimento al valore della preservazione dall’inquinamento dei corsi d’acqua (a mero titolo di esempio, allorché si precisa – cfr. “Norme per i bacini estrattivi delle Alpi Apuane”, paragrafo 3 – che “il Piano attuativo … individua le quantità sostenibili [di materiale lapideo estraibile] … nel rispetto … delle relazioni idrogeologiche fra le attività previste ed il sistema delle acque superficiali e sotterranee”), fermo restando che tale profilo costituisce un ineludibile elemento da valutare nel contesto del rilascio della singola autorizzazione, in uno con la più generale delibazione delle complessive esternalità negative verosimilmente causate dall’intervento.
14. Per le esposte ragioni, pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza quanto alla Regione ed alla società Henraux, mentre possono compensarsi con il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, che non ha svolto concreta attività difensiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso n. 6741 del 2020, come in epigrafe proposto, dispone come segue:
– rigetta l’appello principale proposto dalle associazioni Mountain Wilderness Italia Onlus, Amici della Terra Italia Onlus, Verdi Ambiente e Società – V.A.S. Onlus, Centro Guido Cervati, Centro Culturale La Pietra Vivente e Club Alpino Italiano – Regione Toscana;
– dichiara improcedibile l’appello incidentale proposto dalla Regione Toscana;
– condanna le associazioni appellanti, in solido fra loro, a rifondere alla Regione Toscana le spese del presente grado di giudizio, liquidate in complessivi € 4.000,00 (euro quattromila/00), oltre accessori come per legge ove dovuti;
– condanna le associazioni appellanti, in solido fra loro, a rifondere alla società Henraux S.p.a. le spese del presente grado di giudizio, liquidate in complessivi € 4.000,00 (euro quattromila/00), oltre accessori come per legge;
– compensa le spese fra le associazioni appellanti ed il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso nella camera di consiglio del giorno 8 luglio 2021, svoltasi da remoto ai sensi dell’art. 25 d.l. n. 137 del 2020, con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco, Presidente
Oberdan Forlenza, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere, Estensore
Alessandro Verrico, Consigliere
Silvia Martino, Consigliere
L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
Luca Lamberti | Raffaele Greco | |
IL SEGRETARIO
pubblicata il 20 agosto 2021
(foto A.G., archivio GrIG)
In primo luogo, il Consiglio di Stato riafferma che “le ‘Aree Contigue di Cava’ non sono funditus parte del Parco stesso, pur se geograficamente collocate entro il relativo perimetro”
Come tenere il piede su due staffe. Affermare e negare allo stesso tempo. Capisco sempre più che non avrei mai saputo fare l’avvocato, anche se l’ho sempre desiderato
formalmente le aree contigue non fanno parte del parco.
allora, visto che è stato tutto rigettato , visto che queste cave contigue sono da considerarsi fuori dal Parco anche se dentro al suo perimetro, e quindi non importa nemmeno se inquinano le acque con la marmettola, la lotta contro queste cave, finisce qui?
non sono dentro il perimetro del parco, sono “contigue” e l’inquinamento da marmettola va perseguito in ogni caso, dentro e fuori dal parco. Il Consiglio di Stato non ha detto – e nemmeno pensato – che si possa inquinare a piacimento.
Stefano Deliperi
Evito di entrare nel merito di una vicenda complessa. Mi soffermo, invece, su un particolare fondamentale sul quale si basava la causa.
Secondo il vocabolario della lingua italiana il termine “contiguo” può anche dirsi limitrofo, adiacente, confinante, prossimo, affine, comunicante; meglio ancora si esprime il vocabolario della Treccani: «contìguo agg. [dal lat. contiguus, dal tema di contingĕre «toccare», comp. di con- e tangĕre «toccare»]. – 1. Che è posto vicino ad altra cosa, in modo da avere con essa un termine (lato, ecc.) comune: due case, due orti c.; nella stanza contigua.»
Il termine Area Contigua di Cava è, perciò, improprio, fuorviante, equivoco, tendenzioso, vuole far pensare a una collocazione inversa al vero e cioè non esatta. Infatti, ad eccezione dei bacini 13, 17, 20, 21, le “Aree Contigue di Cava” (ACC) sono in aree “interne” al Parco e non poste vicino ad esso.
Scrive la Suprema Corte riguardo alla decisione del TAR: «b) nel merito, ha premesso che “le cave di cui si discute non sono collocate all’interno del Parco Nazionale delle Alpi Apuane, ma ai suoi confini.”» CIÒ NON RISPONDE AL VERO
Prosegue: “Il territorio del Parco non è circondato da una fascia di salvaguardia; la suddetta fascia è invece ricompresa all’interno del territorio del Parco.” CIÒ NON È VERO IN QUANTO L’AREA CONTIGUA DEL PARCO È ESTERNA AD ESSO; AVVIENE, QUINDI, UN’INVERSIONE DI IDENTIFICAZIONE DELLE AREE.
Continua: “E’ vero, quindi, che le cave di cui si tratta sono confinanti con il Parco, ma non con il <> del Parco; confinano, invece, con la fascia di rispetto”;” E QUI SBAGLIA DUE VOLTE: PERCHÈ LE ACC SONO DENTRO IL PARCO (salvo i bacini sopra menzionati)
Conclude: “sulla scorta di tale assunta conformazione dei luoghi, il T.a.r. ha rilevato che “i ricorrenti affermano che l’inclusione all’interno del territorio del Parco della fascia di rispetto incide negativamente sulla tutela del suo pregio naturale e paesistico e rende illegittima la collocazione di cave al suo confine”; NON VALE LA PENA COMMENTARE.
PER CHIAREZZA ALLEGO IL LINK AL QUADRO UNIONE DEI BACINI ESTRATTIVI (SI VEDA A PAGINA CINQUE) NEL QUALE “ERRONEAMENTE” LE AREE CONTIGUE SONO QUELLE IN VERDE CHIARO E L’AREA PARCO IN VERDE SCURO, CIOÈ INVERTITE. IN SOSTANZA, SECONDO LA CARTINA, IL PARCO SAREBBE ESTERNO ALLE AREE CONTIGUE DEL PARCO. IL CHE È SEMPLICEMENTE ASSURDO. CIÒ È STATO FATTO NOTARE AL GIUDICANTE MA EVIDENTEMENTE NON HA VOLUTO CAPIRE. NE CONSEGUE CHE TUTTE LE DECISIONI PRESE SONO SBAGLIATE, VOLUTAMENTE SBAGLIATE, QUINDI “POLITICHE” E NON DI MERITO.
ED ALLORA DIVENTA PIÙ CHE CHIARO L’INTENTO E LA DECISIONE DEI GIUDICANTI CHE SONO STATI GUIDATI DA UN PREGIUDIZIO (“le parti ricorrenti mirano a ottenere una disciplina di piano che escluda in radice l’attività di cava nelle aree di cui si tratta”)
https://www.regione.toscana.it/documents/10180/12607103/QUADRO_UNIONE.pdf/016c0c68-d587-4a1a-9b3a-c56978b08dcf