Chi appesta l’aria.
Un recente studio pubblicato sulla rivista internazionale Frontiers in Sustainable Cities e ripreso da Il Bo Live, il magazine dell’Università degli Studi di Padova, ci spiega come più della metà delle emissioni di gas serra provengano da 25 metropoli urbane.
La Cina, invece, è il maggiore responsabile mondiale di emissioni di anidride carbonica (CO2), seguita da U.S.A. e India.
Se la nostra Terra, l’unica che abbiamo, sta progressivamente diventando una camera a gas, sappiamo come e perché sta avvenendo.
Sappiamo anche chi lo sta causando.
Chi più, chi meno.
Ora sarebbe il caso di agire, iniziando anche dalle città, no?
Gruppo d’Intervento Giuridico odv
da Il Bo Live dell’Università degli Studi di Padova, 14 luglio 2021
25 mega città producono il 52% delle emissioni di gas serra di tutto il mondo. (Antonio Massariolo)
Sono passati sei anni dagli accordi di Parigi e siamo a pochi mesi dall’importante COP26 che si terrà a novembre a Glasgow. L’obiettivo della COP21, firmato da 170 diversi paesi di tutto il mondo, era quello di limitare l’aumento medio della temperatura globale a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali. Obiettivo che sappiamo essere molto difficile da raggiungere, consapevoli che, analizzando i dati forniti da Copernicus, il 2020 è stato di 0,6° più caldo della media 1981-2010 e ben 1,25 °C rispetto all’era pre-industriale.
I cambiamenti climatici sono un problema a livello globale, come a livello globale sono e saranno le conseguenze. Non tutti i Paesi però si comportano allo stesso modo per quanto riguarda le emissioni di CO2. La Cina è lo Stato che “inquina” di più al mondo, seguita da Stati Uniti ed India.
Uno studio, pubblicato su Frontiers in Sustainable Cities, ha però analizzato più nel dettaglio quali sono le principali città di tutto il mondo ad emettere gas serra, questa volta in generale e non solamente focalizzati sulla CO2. Il primo bilancio globale dei gas serra (GHG) ha dimostrato come solo 25 mega-città producano il 52% delle emissioni di gas serra totali.
Lo studio fa notare che, pur coprendo solo il 2% della superficie terrestre, le città contribuiscono in larga misura alla crisi climatica. A questo bisogna aggiungere anche il fatto che più del 50% della popolazione mondiale risiede nelle città e che queste sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni di GHG.

Lo studio ha preso in considerazione diversi inventari delle emissioni di gas a effetto serra a livello di città. “Ad esempio – si legge nell’introduzione -, le caratteristiche delle emissioni di CO2 in 12 megalopoli dell’Asia orientale (in Cina, Corea del Sud e Giappone) sono state identificate incorporando inventari delle emissioni in modelli di mappatura spaziale e poi è stata condotta un’analisi basata anche sugli obiettivi di riduzione dell’anidride carbonica”.
L’analisi ha preso in considerazione un campione di 167 città o aree metropolitane di 53 paesi diversi tra Nord e Sud America, Europa, Asia, Africa e Oceania. La scelta è stata effettuata in base alla rappresentatività delle dimensioni urbane e alla distribuzione regionale.
Lo studio evidenzia come le prime 25 città contribuiscano al 52% delle emissioni totali di gas serra. le maggiori emettitrici si trovano in Cina (Handan, Shanghai e Suzhou), Giappone (Tokyo), Russia (Mosca) e Turchia (Istanbul).
L’analisi però cambia totalmente se si prendono in considerazione le emissioni pro-capite. In questo caso sono le grandi città di Stati Uniti, Europa e Australia quelle che hanno avuto emissioni di gas serra pro capite notevolmente più elevate rispetto alla maggior parte delle aree in via di sviluppo. Anche diverse città cinesi, come Yinchuan, Urumqi e Dalian, hanno avuto emissioni di GHG pro capite che si avvicinano a quelle dei paesi più sviluppati. Questo, secondo lo studio, sarebbe parzialmente attribuibile alla loro rapida urbanizzazione, industrializzazione e dipendenza relativamente elevata dall’energia del carbone.
Analizzando invece le emissioni di gas serra divise per settori, vediamo come il maggior contribuente per quanto riguarda le emissioni sia il settore della “stationary energy”, cioè quello che comprende tutti i combustibili fossili (gas e carbone) utilizzati nella generazione elettrica e nella produzione diretta di calore industriale, nonché l’energia geotermica.
I dati in questione si riferiscono al 2012 e coinvolgono 109 città in totale, quasi metà delle quali aveva emissioni di “stationary energy” che rappresentavano oltre il 70% delle loro emissioni totali di GHG. Questo significa che la maggior parte di queste città può ottenere progressi significativi nella riduzione dei gas a effetto serra solo nel caso riuscisse a ridurre le emissioni derivanti da questo settore. In particolar modo vediamo come l’impatto maggiore sia nelle città cinesi come Shanghai, Suzhou, Dalian, Handan e Tianjin. Una grossa differenza se prendiamo in considerazione altre grandi città, come ad esempio Belo Horizonte in Brasile che ha avuto il 25% delle emissioni di gas da questo settore.
L’altro settore che contribuisce in modo non indifferente alle emissioni di gas serra è quello dei trasporti. In questo caso in circa un terzo delle città, oltre il 30% delle emissioni totali di gas a effetto serra derivava proprio dal trasporto su strada.
Rimane infine da osservare come le emissioni siano mutate nel corso del tempo nelle varie città. 30 di queste hanno ridotto le loro emissioni annuali di gas serra, molte delle quali situate in America ed Europa. Seattle (Nord America), Oslo (Europa), Bogotá (Sud America) e Houston (Nord America) sono le prime quattro città con la maggiore riduzione delle emissioni pro capite, mentre Bogotá è anche la seconda città in termini di riduzione totale.
Le città europee sono tra le più virtuose e dal 2008 al 2016 c’è stata una riduzione di oltre un miliardo di tonnellate di CO2.
La strada da fare per raggiungere gli accordi di Parigi, che significa banalmente cercare di prevenire un futuro indesiderabile dal punto di vista climatico e delle sue conseguenze è ancora molta. Lo studio lo dimostra chiaramente ed è solo l’ultima conferma di ciò.
(foto da Stadio 24, da Meteo Web, mailing list ambientaliste, S.D., archivio GrIG)
appunto, non è una novità.
da Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2021
Clima, la Cina inquina più di Usa, India, Russia e Giappone messe insieme. Perché il destino del pianeta passa da poche società di Stato.
Secondo un’analisi di Bloomberg le emissioni delle imprese statali nei settori dell’energia, dell’acciaio, del cemento, della raffinazione del petrolio sono uguali a quelle di intere altre nazioni. Il gruppo siderurgico Bowu emette più gas serra del Pakistan, Sinopec group quanto tutto il Canada. Per invertire la tendenza sul cambiamento climatico e rispettare gli accordi di Parigi, bisognerà fare i conti anche con queste società. (Giorgia Colucci) (https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/10/27/clima-pechino-inquina-piu-di-usa-india-russia-e-giappone-messe-insieme-perche-il-destino-del-pianeta-passa-da-poche-societa-cinesi/6368737/)
I destini climatici del pianeta si giocheranno anche e soprattutto nelle grandi aziende cinesi. È quanto emerge da una dettagliata analisi di Bloomberg sui dati pubblici raccolti nel 2019 da Crea – un gruppo di ricerca ambientale, con sede in Finlandia. Il documento mostra come in un solo anno Pechino sia stata in grado di produrre la stessa quantità di Stati Uniti, India, Russia e Giappone messi insieme. Da sola la Cina, emette infatti ogni anno 13 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (il triplo rispetto al 2001), contro i 6,6 miliardi degli Usa, i circa 6 miliardi dell’intera Europa, i 2,2 miliardi dell’India. Quello che più colpisce è però il peso che hanno alcuni singoli gruppi industriali, per lo più statali, capaci di generare quantità di gas serra superiori a quelle di intere nazioni.
Lo scorso anno China Baowu, leader mondiale nel settore dell’acciaio, ha ad esempio riversato nell’atmosfera più Co2 del Pakistan: 211 milioni di tonnellate. Il gigante petrolifero Sinopec Group – con la sussidiaria China Petroleum & Chemical – contribuisce al riscaldamento globale più del Canada. E se fosse uno Stato, sarebbe l’11esimo al mondo per per contributo di Co2. All’intero settore cinese dell’edilizia sono riconducibili quasi 4 miliardi di tonnellate. L’azienda automobilista Saic Motor Corp emette ogni anno 158 milioni di tonnellate, l’equivalente dell’Argentina. Mentre le 317 tonnellate di Huaneng Power Int, specializzata nell’elettrica – superano quelle di tutto il Regno Unito. E questi sono solo alcuni esempi.
I dati diffusi dall’indagine cozzano violentemente con i propositi ufficiali presentati da Pechino che mirano ad un azzeramento delle emissioni nette entro il 2060 con i primi effetti tangibili già dal 2025. Obiettivi che secondo molti esperti difficilmente si possono conciliare con la situazione di partenza e i modesti sforzi fatti sinora dal paese per limitare il suo impatto climatico. Lo studio viene pubblicato a pochi giorni dall’inizio del cruciale vertice Cop 26 che si aprirà domenica 31 ottobre a Glasgow, in Scozia.
“Le emissioni di numerose imprese statali nei settori dell’energia, dell’acciaio, del cemento, della raffinazione del petrolio sono uguali a quelle di intere nazioni – ha spiegato a Bloomberg Lauri Myllyvirta, analista del Center for Research on Energy and Clean Air – e nel 2021 sono aumentate molto più velocemente, invece di rallentare”. Per combattere la recente crisi energetica, ha aumentato l’estrazione e la lavorazione di carbone di circa 100 tonnellate all’anno e intende continuare fino al 2026. La situazione attuale quindi è in contrasto con le linee guida ideali, pubblicate ieri dal governo, per abbattere il consumo di combustibili fossili sotto la soglia del 20% in 40 anni.
Eppure a Pechino converrebbe investire sull’energia eolica e solare – come ha intenzione di fare anche all’estero: è infatti leader sia nello sviluppo di tecnologie per i veicoli elettrici, sia in quello delle batteria e potrebbe facilmente imporsi anche nelle ricerche per l’utilizzo di idrogeno e carbonio. Ha inoltre sviluppato un progetto per ricavare 100 gigawatt da fonti rinnovabili nel deserto su un’area più grande di tutti i dispositivi simili installati in India. Prima però si dovrà confrontare con il fabbisogno energetico – circa il 60% di origine fossile – che sostiene la maggior parte dei suoi colossi industriali statali in diversi campi.
Il settore energetico è responsabile del 33% delle emissioni nazionali – La produzione elettrica della Cina dipende in gran parte dalle Big Five, le principali società di servizi pubblici cinesi: Huaneng Group Co., Huadian Corp., China Energy Investment Corp., State Power Investment Corp e Datang Co. Secondo i dati disponibili sulla produzione di energia termica, nel 2020 hanno generato circa 960 milioni di tonnellate di Co₂, più del doppio della Russia. Tutte e cinque si sono impegnati a raggiungere il picco delle emissioni entro il 2025, ma hanno aumentato la produzione di carbone come sicurezza, in concomitanza dell’avvicinarsi dell’inverno. Nella prima metà di quest’anno, hanno presentato progetti per 43 nuove centrali e, al momento, ne sono state costruite per soddisfare una richiesta di 15 Gigawatt.
Il settore della produzione di acciaio è responsabile del 21% delle emissioni – Più di un quinto del carbone cinese viene usato dall’industria siderurgica. Le emissioni del settore sono aumentate di oltre il 40% dal 2010 al 2020, anche se il consumo medio di energia per tonnellata di acciaio è diminuito. L’industria si è impegnata a ridurre la produzione di Co2 del 30%, con un picco nel 2030. Poi intende sostituire le attrezzature ormai obsolete, come gli attuali altiforni, con alcune più nuove e più pulite. Il passaggio però potrebbe essere critico. Per questo Pechino ha imposto di limitare la produzione, rispetto al 2020: nei primi mesi di quest’anno però è salita ai massimi storici, il che significa che negli ultimi sei mesi dovrebbe calare dell’11% per centrare l’obiettivo fissato dal governo.
Non mancheranno conseguenze su un settore che fabbrica circa 1 milione di tonnellate di acciaio per il mercato interno e ne esporta il 6,2% in 200 paesi del mondo Qualcosa lentamente si muove, alcuni colossi industriali stanno testando nuove tecnologie meno inquinanti. Baowu sta sperimentando l’uso delle microonde durante il processo di sintetizzazione e, come altri gruppi, vuole costruire un forno da 1 milione di tonnellate che utilizzerà l’idrogeno – con una buona rete di distribuzione nel Paese – generato da energia rinnovabile, anche se il metodo è ancora cinque volte più costoso dei metodi tradizionali.
Dall’ edilizia quasi un terzo di tutte le emissioni – La costruzione di nuovi edifici – case e centri commerciali – ha comportato nel 2019 circa 4 miliardi di tonnellate di Co₂. Il 95% proveniva dalla produzione di acciaio e cemento. A queste si devono aggiungere le emissioni derivanti dalla gestione degli edifici. Le proprietà esistenti generano – per il consumo di elettricità, riscaldamento e condizionamento – 2,1 miliardi di tonnellate di gas serra all’anno, secondo la Società cinese per gli studi urbani. Il rallentamento del settore, trainato dal debito di società immobiliari – come Evergrande Group – potrebbe, tra i tanti effetti economici negativi, almeno aiutare a ridurre tali emissioni, parallelamente alla ricerca di materiali più ecologici. Una soluzione è catturare il carbonio e immagazzinarlo. Anhui Conch Group Co., il produttore di cemento numero 2 in Cina, ha investito 60 milioni di yuan per separare e purificare e immagazzinare 50 mila tonnellate di Co₂ in uno dei suoi impianti. Mentre China National Building Material Group Co., il più grande produttore di materiali per l’edilizia, si sta impegnando per sostituire il carbone con energia solare e derivata dalle biomasse, oltre che per migliorare l’efficienza della combustione.
Il settore petrolchimico è responsabile del 14% della Co2 prodotta – La maggior parte delle emissioni di petrolio e gas avviene lontano dalla fonte di produzione – nei tubi di scappamento delle auto o sui fornelli a gas – quindi difficile da controllare per le aziende. Sinopec Group, il più grande raffinatore nazionale, e China National Petroleum Corp (Cnpc) mirano entrambi a raggiungere il picco di emissioni entro il 2025 e lo zero entro la metà del secolo. Al momento però le loro iniziative sono ferme ai blocchi di partenza: PetroChina, la sussidiaria Cnpc, ha emesso 167,4 milioni di tonnellate di Co₂ nell’ultimo anno. China Petroleum & Chemical Corp., – di Sinopec – ha aggiunto 171 milioni di tonnellate. Insieme alle loro aziende madri hanno eguagliato le emissioni di quattro Stati: Canada, Spagna, Corea del Sud e Vietnam. Entro il 2025 saranno costruite 10 mega raffinerie, per lavorare oltre 200 milioni di tonnellate di greggio all’anno (1,1 miliardi all’anno in tutto il Paese).
Il 7% viene dai trasporti – Anche se l’avvento dell’elettrico sta spostando molti investimenti sulla plastica, più della metà del petrolio cinese viene utilizzato per il trasporto. Al momento il governo sta intervenendo per potenziare la sua flotta di veicoli non a benzina: un’auto nuova su cinque entro il 2025, dovrà essere elettrica. Al momento lo è solo il 5% del totale. Restano però le emissioni legate alle operazioni di assemblaggio. Saic Motor Corp, il più grande produttore del paese, ha generato 98 milioni di tonnellate di Co₂ dalle sue operazioni, consumo di elettricità e produzione di acciaio nel 2020. Rimangono poi le difficoltà nell’elettrificare mezzi più pesanti come camion, treni, aeroplani e navi. Le possibili soluzioni, come l’idrogeno e l’ammoniaca, sono lungi dall’essere economicamente praticabili.
Il peso, non trascurabile, dell’agricoltura – Secondo alcune ricerche del 2014 del ministero dell’Agricoltura e degli affari rurali cinese, l’uso di energia per le attrezzature meccaniche ha superato i fertilizzanti come fonte di gas serra. Secondo Crea, nel 2019 il consumo del settore è stato responsabile di 188 milioni di tonnellate di emissioni. Non è però calcolato il gas metano prodotto dai suini e bovini e sul territorio, che intrappola 80 volte più calore della normale Co₂ nei suoi primi due decenni della sua permanenza nell’atmosfera. I 48,6 milioni di maiali – due terzi in più rispetto alla media mondiale nell’industria alimentare – dei cinque maggiori allevatori della Cina hanno prodotto 14 milioni di tonnellate di anidride. Si tratta però solo un decimo della mandria nazionale, destinata a crescere con l’aumento dei redditi e i cittadini e all’incremento di carne nelle loro diete.