Il cracker devasta le foreste tropicali.


Malesia, Sabah, piantagione di palma da olio in area deforestata

Malesia, Sabah, piantagione di palma da olio in area deforestata

Che la produzione di energia da biomasse e i biocarburanti non fossero esenti da gravi problematiche ambientali è ormai un dato acquisito, l’E.P.A. (United States Environmental Protection Agency) ha depennato il biodiesel realizzato da olio di palma dall’elenco dei combustibili “ecologici” secondo gli standard statunitensi.

Ma anche l’industria alimentare ha colpe pesantissime, poco conosciute. E l’innocente cracker sta distruggendo le foreste tropicali.

Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

crackers

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da Il Corriere della Sera, 26 luglio 2013

SETTE GREEN. Là dove c’era la foresta ora c’è l’olio da snack. A Sumatra bruciano le torbiere. Obiettivo: far posto alle piantagioni di palma da cui si ricavano i grassi delle merendine. Per lo stop serve l’aiuto dell’Occidente.

Distributore automatico di merendine in un’azienda occidentale. Tarallucci, crackers, biscotti di cioccolato, wafer al riso soffiato, patatine. Su cinque snack, cinque citano fra gli ingredienti “oli e grassi vegetali”. Nome generico dietro cui, probabilmente, si cela anche l’olio di palma, usato pure come biocarburante e in vari detersivi, shampoo, cosmetici, in particolare nei saponi, perché permette di ottenere un prodotto molto solido, di rapida essiccazione e che si consuma lentamente. È l’olio vegetale più usato al mondo, dopo quello di soia: coltivarlo costa poco e ha un’altissima resa. Un singolo ettaro può produrre fino a sette tonnellate di olio, molto più di quanto si riesca a estrarre da altre colture di semi oleosi come mais, soia, colza.

INCENDI DOLOSI – Isola di Sumatra, Indonesia. Da giugno a settembre, nella stagione secca, ogni anno qui si consuma un triste rituale: incendi dolosi appiccati nelle foreste per far posto a sconfinate piantagioni di palma da acacia, da cui si estrae la polpa di cellulosa per la produzione di carta, oppure di una particolare varietà di palma, che produce un grosso frutto rosso ricco di olio, la palma da olio appunto. Incendi accesi da mano umana che spesso si trasformano in roghi fuori da ogni controllo. Migliaia di ettari di vegetazione tropicale vanno in fumo così, ogni anno, creando enormi nuvole di cenere e polvere che arrivano fino a Singapore, Malesia, Taiwan e altri Paesi vicini, rendendo l’aria irrespirabile per centinaia di chilometri. Come hanno dimostrato le scioccanti immagini satellitari diramate in giugno. Per giorni Singapore è stata avvolta da una densa caligine che ha spinto la popolazione a barricarsi in casa o girare con la mascherina e le centraline dell’inquinamento dell’aria, che misurano le famigerate polveri sottili in atmosfera, sono schizzate da 75 a 401 (Pollutant Standard Index), “rischio letale per anziani e malati”.

Liberia, foresta di Gobar

Liberia, foresta di Gobar

LA «BONIFICA» DELLE TORBIERE – Gli ecosistemi più minacciati dall’espansione delle piantagioni di palma da olio sono le torbiere, zone semipaludose su substrati di vegetazione decomposta (torba) che agisce come una spugna, assorbendo acqua e aiutando a prevenire le inondazioni. Un’enorme riserva di materiale organico che racchiude in sé grandi quantitativi di carbonio. Chi vuole sviluppare nuove piantagioni, spesso illegalmente, prima di tutto “secca” le torbiere costruendo canali di drenaggio, quindi “bonifica” il terreno appiccando il fuoco. Risultato: tonnellate di CO2 in atmosfera e animali selvatici costretti a migrare in tutta fretta; tra questi anche diversi esemplari di specie in via di estinzione come l’orango, il rinoceronte o la tigre di Sumatra.

IL COSTO AMBIENTALE – L’Indonesia è leader mondiale nella produzione di olio di palma. «Difficilmente rinuncerà ai profitti che ne derivano. Una volta piantato, l’albero tropicale può produrre frutti per più di 30 anni, fornendo occupazione tanto necessaria per le comunità rurali povere», conferma un report del Worldwatch Institute. «Ma ciò ha un costo altissimo, a livello ambientale. Le piantagioni spesso sostituiscono le foreste tropicali, uccidendo le specie in pericolo, sradicando le comunità locali e contribuendo al rilascio di gas clima-alteranti. Soprattutto a causa della produzione di olio di palma, l’Indonesia è il terzo Paese al mondo per emissioni di gas serra, dopo Stati Uniti e Cina». Secondo i dati dell’organizzazione ambientalista Greenpeace, la deforestazione e poi gli incendi causano ogni anno il rilascio in atmosfera di circa 1,8 miliardi di tonnellate di CO2.

Indonesia, tagli forestali

Indonesia, tagli forestali

CHI INQUINA PAGA? – La legge a protezione delle foreste in realtà c’è, ma non viene applicata correttamente; le concessioni vengono date spesso in modo poco trasparente e non esiste ancora un archivio dati preciso delle terre interessate alla deforestazione e alla salvaguardia ambientale, denuncia Greenpeace, che ha lanciato una campagna mediatica di respiro internazionale per sollevare il velo sulle responsabilità economiche e politiche dietro le grandi nuvole nere che invadono i cieli dell’Asia meridionale. «In Indonesia è stata fortunatamente rinnovata per altri due anni la moratoria che vieta di convertire in piantagioni le torbiere con strati di torba più profondi di tre metri ed esiste anche un organismo, il “Roundtable on sustainable palm oil” (RSPO) istituito nel 1997, che dovrebbe garantire e certificare la sostenibilità dell’olio prodotto dai suoi associati», spiega Chiara Campione, responsabile della Campagna foreste di Greenpeace Italia. «La legge c’è ma non viene rispettata. E la RSPO di fatto concede la certificazione anche a chi si comporta in maniera scorretta, secondo i nostri parametri. Noi chiediamo che espella almeno i produttori che hanno causato i recenti incendi forestali».

LA BATTAGLIA APERTA – Sulla questione, la battaglia è aperta. Greenpeace vanta una grande vittoria: l’anno scorso ha “convinto” la multinazionale cino-indonesiana della carta APP, parte del colosso Sinar Mas, ad adottare una politica di “deforestazione zero” lungo tutta la sua filiera e quando la Rainbow Warrior, nave ammiraglia degli “ecoguerrieri”, è arrivata a Giakarta, il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono è salito a bordo per mandare un segnale di collaborazione con gli ambientalisti dopo anni di tensioni. «Ora bisogna che anche le altre multinazionali, produttrici di olio da palma, seguano l’esempio», sostengono i responsabili di Greenpeace, elencando i nomi dei presunti produttori “fuorilegge”: «Sime Darby, Wilmar International e IOI continuano a incendiare come se nulla fosse e anche la RSPO, l’ente certificatore, non vieta di fatto lo sviluppo di piantagioni sulla torba», si legge nel comunicato diffuso nelle settimane scorse.

Cambogia, taglio foresta pluviale

Cambogia, taglio foresta pluviale

I NUOVI IMPRENDITORI – La RSPO ribatte difendendo parzialmente le aziende del settore e rimbalzando la responsabilità dei roghi sulle aziende della carta: «L’80% degli incendi è avvenuto al di fuori delle piantagioni di palma da olio, molti nelle piantagioni di polpa di cellulosa e di carta. Speriamo che Greenpeace inizi ad applicare lo stesso rigore di vigilanza in questi settori». La disputa allontana, in realtà, l’attenzione da altri e meno visibili protagonisti dello scempio forestale in Indonesia. Mentre le grandi industrie del settore, sempre più sorvegliate dai mass media e dai governi, stanno lentamente abbandonando le pratiche più discutibili e le concessioni dubbie, si fanno strada “imprenditori” senza scrupolo di medio livello, pronti a rimpiazzare i big e a utilizzare la pratica del cosiddetto slash-and-burn, il taglia e brucia. «Acquistano terreni con contratti informali a livello di villaggio, aggirando così di fatto il sistema di concessioni governative su terre formalmente pubbliche», sostiene uno studio del Centro Agroforestale Mondiale. «Quindi impiegano forza lavoro non locale per “ripulire” il terreno e prepararlo alla coltivazione della palma da olio, illegalmente ». In questo clima confuso, gli incendi sull’isola di Sumatra, in particolare nella provincia di Riau, sono tutt’altro che spenti. «È molto probabile che si riproporranno periodi di roghi violentissimi come quelli del mese scorso», denuncia un report del World Resources Institute. «Gli incendi boschivi sono un problema endemico in Indonesia, che avrebbe bisogno di soluzioni complesse e coordinate».

LE COLPE DELL’OCCIDENTE – Di certo noi italiani non possiamo chiamarci fuori, anche se centinaia di migliaia di chilometri ci separano da quelle foreste. Siamo, infatti, uno dei principali consumatori di polpa di cellulosa dalla Cina (e quasi tutta la polpa di cellulosa commercializzata dai cinesi proviene dall’Indonesia) e terzi consumatori di olio di palma a livello europeo dopo Gran Bretagna e Olanda. Sugli scaffali dei nostri supermercati, come nei distributori automatici di snack o nelle profumerie, si accumulano prodotti industriali che contengono materie prime provenienti dalla distruzione delle foreste indonesiane. L’obiettivo di Greenpeace è proprio quello di ricostruire la filiera, il binario che collega la distruzione delle torbiere con i prodotti che finiscono nelle nostre case. Tentando poi di cambiare le politiche di acquisto di queste materie prime da parte dei grandi brand internazionali.

Sardegna, foresta mediterranea

Sardegna, foresta mediterranea

LA CAMPAGNA “DEFORESTAZIONE ZERO” – Come è già avvenuto per la filiera della carta, attraverso una campagna “deforestazione zero” che ha spinto gli editori a non comprare più polpa di cellulosa proveniente da “crimini forestali”, Greenpeace ora punta a spingere i brand della cosmetica e dell’alimentazione a ripulire i loro prodotti alla sorgente e quindi a fermare la “politica dello slash and burn”. Quando Unilever o Procter&Gamble, che commercializzano saponette, prodotti cosmetici e detersivi, hanno cancellato il contratto con le multinazionali più controverse dell’olio di palma, infatti, anche i produttori indonesiani hanno fatto marcia indietro. Insomma, la via più facile per spegnere gli incendi in Asia sembra essere la sensibilizzazione dei consumatori e delle aziende occidentali, quasi tutte ormai dotate di una politica di Corporate sustainability che si occupa dell’impatto delle proprie pratiche produttive. Torno al distributore di merendine. Prendo un’acqua e vado via.

(foto da http://www.salvaleforeste.it, da mailing list ambientalista, da Coop Firenze, S.D., archivio GrIG)

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  1. Mara
    luglio 31, 2013 alle 8:31 am

    La miope e irresponsabile distruzione delle foreste è un’emergenza mondiale. Il sito http://www.salviamolaforesta.org/ se ne occupa da anni ed ha all’attivo alcune importanti vittorie. Le grandi industrie sono sensibilissime alla pressione dei consumatori, a volte poche migliaia di firme hanno fatto loro decidere di cambiare rotta. Insieme al rifiuto di consumare prodotti ottenuti con la distruzione delle foreste (o con lo sfruttamento di bambini…ancora peggio), la raccolta di firme è per ora l’unico strumento in mano a noi comuni mortali.

  2. luglio 31, 2013 alle 12:47 PM

    L’ha ribloggato su Fabio Argiolas.

  3. Shardana
    luglio 31, 2013 alle 4:37 PM

    Oh ragazzi siamo alle solite…..cominciamo dalla nostra spesa e dai nostri consumi.NON COMPRIAMO PRODOTTI CON OLIO DI PALMA e invitiamo i conoscenti a fare altrettanto.TAM TAM TAM TAM TAM TAM TAM TAM

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