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Un po’ di giustizia per Taranto.


Mauro Zaratta (Taranto, 17 agosto 2012, da http://www.gettyimages.com)

La Corte d’assise di Taranto, dopo una lunga camera di consiglio e a sette anni dalla richiesta di rinvio a giudizio, ha condannato industriali, tecnici, amministratori e funzionari pubblici per il disastro ambientale e sanitario determinato dall’inquinamento industriale degli impianti ex ILVA di Taranto, agevolato dal disinvolto favore di Stato.

Fra i condannati Fabio e Nicola Riva, già proprietari e amministratori dell’ILVA (rispettivamente 22 e 20 anni di reclusione), Nichi Vendola, già presidente della Regione Puglia e leader di S.E.L. (tre anni e mezzo di reclusione), Giorgio Assennato, già direttore generale di A.R.P.A. Puglia (due anni di reclusione).

Confiscati gli impianti dell’area a caldo dello stabilimento ILVA, sottoposto a sequestro preventivo nel 2012, e tre società del Gruppo ILVA.

Ricordiamo qualche dato contenuto in atti giudiziari, precisamente in Tribunale di Taranto, sez. feriale, in sede di riesame, 20 agosto 2012, n. 98/12 (ord.).

Taranto, acciaieria Ilva

Nei 13 anni esaminati (1998-2010), secondo le stime peritali, nei due quartieri tarantini di Tamburi e Borgo sono stati causati dall’inquinamento dell’ILVA ben 386 decessi totali, in gran parte per cause cardiache (30 all’anno), 237 casi di tumore maligno (18 all’anno), 247 eventi coronarici (19 all’anno) e 937 casi di malattie respiratorie (74 all’anno), in gran parte della popolazione infantile (638 casi totali, 49 all’anno). A Taranto, sempre secondo i periti, la mortalità, per patologie tumorali e del sistema cardiocircolatorio, per malattie ischemiche e dell’apparato respiratorio, è “più alta rispetto alla Puglia”, mentre per la mortalità infantile si registra “un eccesso, soprattutto con riferimento alle malattie respiratorie acute al di sotto dell’anno di età, oltre che a quelle tumorali”.     

Pesanti le conseguenze per la salute dei lavoratori del siderurgico che nello stesso periodo hanno accusato malattie respiratorie e tumorali non da asbesto: “tale evidenza può essere collegata all’esposizione dei lavoratori Ilva a cancerogeni ambientali diversi dall’asbesto, in particolare Ipa (idrocarburi policiclici aromatici, n.d.r.) e benzene”.   

Le conclusioni peritali sono lapidarie: l’Ilva ha provocato “malattia e morte”.

Molto pesanti anche le risultanze dello Studio epidemiologico S.E.N.T.I.E.R.I. – risultati (2012).

Si tratta della sentenza di primo grado, seguirà certo il giudizio di appello e di tutti gli indagati si presume l’innocenza fino a sentenza passata in giudicato, ma si tratta anche di un primo passo, fondamentale, per rendere finalmente giustizia a Lorenzo Zaratta, a migliaia di tarantini e a decine di migliaia di Lorenzi di tutta Italia.

Gruppo d’Intervento Giuridico odv

Taranto, acciaieria Ilva

A.N.S.A., 31 maggio 2021

Ex Ilva: 22 e 20 anni per Fabio e Nicola Riva. Condannato a 3 anni e mezzo Vendola.

Si tratta del processo chiamato Ambiente Svenduto sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico.

La Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, tra i 47 imputati (44 persone e tre società) nel processo chiamato Ambiente Svenduto sull’inquinamento ambientale prodotto dallo stabilimento siderurgico. Rispondono di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

La pubblica accusa aveva chiesto 28 anni per Fabio Riva e 25 anni per Nicola Riva.  

 Tre anni e mezzo di reclusione sono stati inflitti dalla Corte d’Assise di Taranto all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola sempre nell’ambito del processo per il presunto disastro ambientale negli anni di gestione della famiglia Riva.

I pm avevano chiesto la condanna a 5 anni. Vendola è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far “ammorbidire” la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. 

La Corte d’Assise di Taranto ha condannato a 21 anni e 6 mesi di carcere l’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà e a 21 anni l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. E’ stata inoltre disposta la confisca degli impianti dell’area a caldo che furono sottoposti a sequestro il 26 luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva Forni Elettrici. Condannato a 17 anni e sei mesi l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti.

Condannato a 2 anni l’ex direttore generale dell’Agenzia per l’ambiente (Arpa) della Puglia, Giorgio Assennato, accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola. Secondo l’accusa, Assennato avrebbe taciuto delle pressioni subite dall’ex governatore affinché attenuasse le relazioni dell’Arpa a seguito dei controlli ispettivi ambientali nello stabilimento siderurgico. Il pm aveva chiesto la condanna a un anno. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. 

Ira dell’ex governatore della Puglia:  “Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità – ha detto Nichi Vendola dopo la sentenza -. E’ come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata”.

Taranto, complesso siderurgico Ilva

da Il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2021

Ilva, maxi-condanne nel processo Ambiente Svenduto: 22 anni a Fabio Riva, 20 a Nicola. Ventuno per Archinà, 3 anni e 6 mesi a Vendola.

Ai principali fiduciari dell’acciaieria – una sorta di “governo ombra” dei Riva – sono stati inflitti 18 anni di pena, mentre l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni. Ventuno anni all’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, due per l’ex direttore di Arpa Puglia. Confiscata l’area a caldo. L’attacco frontale di Vendola alla corte: “La sentenza è una vergogna, carneficina del diritto e della verità”. (Francesco Casula, Andrea Tundo)

Quello provocato dall’Ilvadi Taranto gestita dalla famiglia Riva fu un disastro ambientale. È quanto sostiene la Corte d’Assise del tribunale jonico che ha giudicato colpevoli a vario titolo i principali imputati del processo Ambiente Svenduto condannando a pene severe gli ex proprietari e vertici dell’acciaieria, così come i politici e uomini delle istituzioni coinvolti. La giuria – che ha letto il dispositivo per 1 ora e 46 minuti a partire dalle 10.43, dopo 11 giorni di camera di consiglio – ha inflitto 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola. Il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la “longa manus” dei Riva verso istituzioni e politica, è stato condannato a 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.

Vendola condannato attacca i giudici – Ai principali fiduciari dell’acciaieria (Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli e Agostino Pastorino) considerati una sorta di “governo ombra” dei Riva sono stati inflitti 18 anni e 6 mesi di pena, mentre l’ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, ha ricevuto una pena di 3 anni e 6 mesiLa reazione dell’ex presidente della Regione è stata veemente, un attacco frontale alla giuria: “Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia”, ha scritto definendosi un “agnello sacrificale” e sostenendo che “non starò più zitto”. L’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni: era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica. Stessa pena per per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti ha ricevuto una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva annunciato durante il dibattimento di voler rinunciare alla prescrizione e per il quale la procura aveva chiesto 1 anno.

Le altre pronunce della corte – Assolti invece il prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva del periodo del periodo più difficile del siderurgico per la quale l’accusa aveva chiesto 17 anni, l’ex assessore pugliese e deputato di Si Nicola Fratoianni, l’attuale assessore regionale Donato Pentassuglia. Assoluzione anche per l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano e per due fiduciari, Giuseppe Casartelli e Cesare Corti. L’allora direttore del siderurgico Adolfo Buffo, ora direttore generale di Acciaierie Italia, nel quale c’è anche la statale Invitalia è stato condannato a 4 anni (la richiesta era 17 anni). Pene alte per Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice, Salvatore D’Alò, condannati a 17 anni ciascuno, come da richiesta dell’accusa. Invece per Marco Andelmi e Angelo Cavallo la pena è stata di 11 anni e 6 mesi, mentre l’accusa ne aveva chiesti 17. L’avvocato dei Riva Francesco Perli è stato condannato a 5 anni e 6 mesi (l’accusa ne aveva chiesti 7). A molti dei condannati la Corte ha inflitto anche l’interdizione perpetua o per 5 anni dai pubblici uffici o dai propri incarichi.

Le confische – A Ilva è stata comminata una sanzione di 4 milioni euro e l’area a caldo dello stabilimento è stata confiscata. La confisca disposta dalla sentenza non avrà effetti immediati sulla produzione del siderurgico, perché sarà operativa solo nel momento in cui dovesse essere confermata dalla Cassazione. Al momento resta attivo il sequestro con facoltà d’uso da parte di Acciaierie Italia, la join venture tra ArcelorMittal e Invitalia, che gestisce l’impianto. L’acciaieria di Taranto, come già confermato dalla Corte Costituzionale, è infatti dal 2012 considerato per legge un impianto strategico per l’economica. I giudici hanno stabilito la confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spaRiva fire spa, oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione, e Riva forni elettrici per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. È stata disposta anche la trasmissione degli atti alla procura per l’ipotesi di falsa testimonianza di 4 persone ascoltate in aula, compreso l’ex arcivescovo della diocesi di Taranto Benigno Papa.

Le accuse – La Corte d’Assise – presieduta da Stefania d’Errico, giudice a latere Fulvia Misserini – ha sostanzialmente giudicato valido l’impianto accusatorio dei pm MarianoBuccoliero, Giovanna Cannarile, RemoEpifani e Raffaele Graziano, coordinati dal procuratore facente funzione Maurizio Carbone che avevano portato alla sbarra, a vario titolo, associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanzealimentari, corruzioni in atti giudiziari, omicidiocolposo e altre imputazioni. Gli imputati erano stati rinviati a giudizio nel 2015, ma il dibattimento iniziato davanti alla Corte d’Assise era stato annullato qualche mese più tardi e si era tornati in udienza preliminare. Il secondo processo, cominciato nel 2016, si è concluso oggi e ha visto 47 imputati alla sbarra (44 persone fisiche e 3 società.

Come iniziò la vicenda – La vicenda legata al presunto disastro ambientale era deflagata il 26 luglio 2012 quando venne notificato il decreto di sequestro degli impianti, firmato dalla gip Patrizia Todisco, quando gli operai avevano già isolato la città perché il provvedimento era sostanzialmente “annunciato” da quanto stava avvenendo da settimane. Per quaranta giorni i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce avevano filmato gli sbuffi dell’acciaieria più grande d’Europa, le nuvole di minerale, come chiamano a Taranto le polveri di ferro e carbone che viaggiavano verso il quartiere Tamburi dai parchi, allora scoperti, dove venivano stoccate in attesa di diventare acciaio.

Le reazioni del sindaco e della procura – “Credo che da oggi cambia tutto per questo Paese, cambia tutto per Taranto, per i diritti dei tarantini. Tutte le sofferenze che ci portiamo dietro finalmente vengono riconosciute dallo Stato italiano”, ha detto il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci. Per la procura di Taranto, la sentenza “rappresenta un momento importante per la città di Taranto” che chiude “la prima fase di una delicata e complessa vicenda giudiziaria”, ha scritto il procuratore facente funzioni Carbone. “È stato un percorso giudiziario lungo e travagliato, una strada in salita e con tanti ostacoli, ma oggi – aggiunge – possiamo esprimere la nostra soddisfazione per questo primo importante risultato. Leggeremo con attenzione le motivazioni di questa sentenza che rappresenta una svolta storica sul piano giudiziario per la città di Taranto, e non solo”. Tutte le difese hanno già annunciato ricorso in appello, con gli avvocati dei Riva pronti a sostenere che la famiglia ha “costantemente investito ingenti capitali” in Ilva “al fine di migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme” per un totale sotto la loro gestione di “4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 miliardi di natura specificatamente ambientale”. Per la Corte d’Assise, invece, tra il 1995 e il 2012, sotto la loro gestione, l’Ilva provocò un disastro ambientale.

 

Ilva, tutte le tappe del caso: il sequestro del 2012, le perizie e le ‘sponde politiche’. Ecco come si è arrivati alla sentenza.

Dopo 11 giorni di camera di consiglio al termine del dibattimento che ha coinvolto 47 imputati, la Corte d’Assise di Taranto ha emesso il verdetto sull’inchiesta Ambiente svenduto, esplosa nl 2012 quando il gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della procura, dispose il sequestro dell’area a caldo. Per i periti generavano nella popolazione “eventi di malattie e morte”. (Francesco Casula)

Nove anni dopo è arrivato il giorno del verdetto: secondo la Corte d’Assise di Taranto, la gestione dell’Ilva da parte dei Riva ha davvero causato un disastro ambientale. Dopo 11 giorni di camera di consiglio al termine del dibattimento che ha coinvolto 47 imputati (44 persone fisiche e 3 società) con la procura che aveva chiesto 35 condanne per un totale di 400 anni di carcere, i giudici hanno condannato i principali imputati del processo Ambiente Svenduto, riconoscendo in buona sostanza l’impianto accusatorio. Ecco le principali tappe della vicenda giudiziaria.

Gli arresti e l’addio alla monocultura industriale – L’inchiesta Ambiente svenduto sull’ex Ilva di Taranto esplode nel lontano 2012 quando il gip Patrizia Todisco accogliendo la richiesta della procura ionica dispone il sequestro senza facoltà d’uso dei sei impianti dell’area a caldo che, secondo quanto accertato in due maxi-perizie, una ambientale e una epidemiologica, attraverso le emissioni generavano nella popolazione “eventi di malattie e morte”. La procura sostiene che terreni, animali, prodotti caseari, come denunciato diversi anni prima dall’associazione ambientalista Peacelink, è contaminato da diossina e non solo. Insieme al blocco degli impianti ci sono anche i primi arresti: ai domiciliari finiscono i vertici dell’azienda tra i quali Emilio Riva, patron del Gruppo scomparso un anno dopo, suo figlio Nicola (la procura ha chiesto 28 anni di carcere) e diversi dirigenti. Le accuse sono di disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e avvelenamento di sostanze alimentari. Secondo i periti e i carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di Lecce, ogni anno dalla fabbrica si sollevano oltre 700 tonnellate di polveri che si abbattono sul vicino quartiere Tamburi e su altre zone della città. La città si divide: da un lato il mondo ambientalista manifesta a sostegno dei giudici e del diritto alla salute, dall’altro ci sono gli operai che aizzati dall’azienda scendo in piazza per difendere il diritto al lavoro. Il blocco degli impianti, però, viene poco dopo riformato dal Tribunale del Riesame che concede la facoltà d’uso ai fini dell’ammodernamento. Ilva continua a produrre e quindi – secondo l’impostazione dell’accusa – a inquinare. I sindacati metalmeccanici scendono a Taranto per difendere il lavoro: il comizio dei principali leader sindacali viene però interrotto da un gruppo di operai a bordo di un Apecar, stanchi dell’atteggiamento servile nei confronti dei padroni dell’acciaio. Nasce in quel 2 agosto il Comitato cittadini Liberi e Pensanti che sarà una delle principali espressioni dell’esasperazione tarantina rispetto alla monocultura industriale del territorio.

La rete di contatti del deus ex machina Archinà – A novembre la questione deflagra nuovamente. Un’indagine della Guardia di finanza svela attraverso 11mila telefonate intercettate la rete di contatti intessuti dai vertici dell’impresa con la politica e la stampa tarantina per tenere la situazione “sotto coperta”. L’allora potentissimo responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà parlava con tutti: amministratori del quartiere Tamburi, forze dell’ordine, l’allora sindaco di Taranto, i sindacati, i parlamentari ionici e persino con il consulente della procura, Lorenzo Liberti, che ne 2010 stava preparando una relazione sulle emissioni del siderurgico. Non solo. Centinaia di pagine sono dedicate alle frequentazioni con alcuni giornalisti locali: ciò che emerge dalla lettura delle trascrizioni, è un quadro di assoluta “sudditanza” nei confronti dell’Ilva da parte di alcuni operatori dell’informazione locale. “Io ho sempre sostenuto che bisogna pagare la stampa. Pagare la stampa per tagliare la lingua”, afferma al telefono ignaro di essere ascoltato dai finanzieri.

Taranto, manifestazione contro l’inquinamento

Le accuse al perito della procura e a Vendola – Ma da quelle conversazioni emerge anche come l’Autorizzazione integrata ambientale concessa dal ministero dell’ambiente all’Ilva sia frutto, per l’accusa, di un’azione illegale: l’avvocato dell’Ilva Francesco Perli, infatti, a Fabio Riva annuncia l’arrivo della commissione ministeriale affermando: “Non avremo sorprese e comunque la visita della Commissione allo stabilimento va un po’ pilotata”. Archinà finisce in carcere. Fabio Riva, ex vice presidente del Gruppo Riva Fire per il quale i pm hanno chiesto 25 anni di reclusione, invece, sfugge alla detenzione in cella perché si rifugia all’estero. Le accuse si aggravano: la procura contesta l’associazione a delinquere e persino la corruzione in atti giudiziari. Dalle attività investigative, infatti, emerge l’incontro tra Archinà e il consulente della procura Liberti alle spalle di un autogrill nell’autostrada tra Taranto e Bari durante il quale l’ex dirigente Ilva avrebbe – secondo i pubblici ministeri – versato una tangente da 10mila euro per “ammorbidire” la relazione a favore della fabbrica. E da quelle telefonate spunta anche la voce di Nichi Vendola, l’allora governatore di Puglia e leader di Sinistra Ecologia e Libertà, che in una telefonata parla con Archinà: “Dica ai Riva che il presidente non si è defilato”, diceva.

I decreti Salva Ilva e il ‘governo ombra’ – Il governo, intanto, vara il primo dei numerosi decreti ribattezzati Salva Ilva che neutralizzano l’azione dei giudici: la fabbrica, in attesa di essere ammodernata, può continuare a produrre. La questione finisce dinanzi alla Corte costituzionale che dà ragione al governo sostenendo che c’è un tempo accettabile perché Ilva si adegui alle migliori tecnologie disponibili. Passa qualche mese e a maggio 2013 arriva la terza ondata di arresti: finiscono in carcere i “fiduciari” e l’ex presidente della Provincia Gianni FloridoQuest’ultimo è accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica: l’autorizzazione, in realtà sarà concessa qualche mese dopo il suo arresto con un nuovo decreto del governo. I fiduciari, invece, per i finanzieri costituivano una sorta di “governo ombra” dello stabilimento: direttamente alle dipendenze dei Riva impartivano ordini all’organigramma ufficiale dell’azienda seguendo la logica del “massimo profitto con il minimo sforzo”. Una modalità che avrebbero consentito al Gruppo Riva di risparmiare la somma di 8 miliardi di euro tra il 1995 e il 2012: il gip Todisco firma il maxi-sequestro che qualche tempo dopo sarà annullato dalla Cassazione.

Il lungo processo, tra perizie e difese – A Taranto, nel frattempo, il contenuto delle indagini segna tra gli operai un cambio di passo: un sentimento diverso dalla difesa del diritto al lavoro a ogni costo si fa strada nell’animo dei lavoratori. A ottobre 2013 la procura chiude le indagini: tra le oltre 50 persone coinvolte figura anche Vendola, imputato per concussione (5 anni la richiesta di condanna) sull’ex dg di Arpa Puglia Giorgio Assennato accusato di essere troppo duro con l’Ilva. A luglio 2015 gli imputati vengono rinviati a giudizio: comincia il processo dinanzi alla Corte d’assise che tuttavia viene annullato qualche mese più tardi. Tutto da rifare. Si torna in udienza preliminare per un nuovo rinvio a giudizio. Il secondo processo comincia nel 2016Dopo quasi 4 anni, centinaia di udienze e di testimoni, migliaia di parti civili e una mole incredibile di documenti, le contro-perizie dei principali imputati e la difesa di tutti gli altri, è arrivato il momento del verdetto.

 

(foto da http://www.gettyimages.com, A.N.S.A. )

  1. Gavino Meloni
    giugno 1, 2021 alle 10:16 am

    Quando toccherà alla SARAS, a Ottana, S. Antioco, Furtei, Perdasdefogu, ecc. ecc.?
    Anche in questi posti la gente muore ed è motra per il lavoro ma la giustizia tace nonostante le copiose segnalazioni negli anni dei medici di base e denunce pubbliche di diverse associazioni …..
    Nessuno sputa sul piatto dove mangia ma questo e troppo.
    Gavino

  2. capitonegatto
    giugno 2, 2021 alle 5:55 PM

    Le sentenze non si commentano, e chi crede che siano sbagliate , giustamente puo’ fare appello. Resta il fatto, che dopo questa sentenza , anche se non definitiva, c’ e’ ancora qualcuno che guida un noto giornale di dx, che giustifica l’inquinamemnto con l’utilita’ dell’acciaio prodotto da questo sito industriale. In altri termini , se ci sono stati effetti collaterali gravi , decessi, tumori e altro, pero’ abbiamo prodotto acciaio , grazie al quale le nostre industrie ne hanno potuto trarre profitto.
    Equazione tragica e cinica .

  3. giugno 2, 2021 alle 10:32 PM

    ma ce ne rendiamo conto?

    da Il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2021
    Taranto, la battaglia persa da 6 governi. Decreti inutili e i veleni sempre come prima. La politica del “salva Ilva” che non ha mai risolto nulla
    Il processo ha dato risposte sul periodo in cui l’impianto era gestito dai Riva. Ma dopo il 2012? Da Monti a Conte, passando per Letta, Renzi e Gentiloni, tutti hanno avuto tra le mani la bomba sociale e ambientale procedendo a colpi di decreto. Ma i dati raccontano che nella città pugliese si muore ancora di più che in altre zone d’Italia. (Francesco Casula):.https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/06/02/taranto-la-battaglia-persa-da-6-governi-decreti-inutili-e-i-veleni-sempre-come-prima-la-politica-del-salva-ilva-che-non-ha-mai-risolto-nulla/6217232/

  4. giugno 13, 2023 alle 10:44 PM

    A.N.S.A., 13 giugno 2023
    Bimbo morì per tumore, a processo dirigenti dell’ex Ilva.
    Accolto ricorso contro non luogo a procedere per sei imputati. (https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2023/06/13/bimbo-mori-per-tumore-a-processo-dirigenti-dellex-ilva_081d87b8-d315-4fae-85ba-c1394acd1186.html)

    Con l’accusa di omicidio colposo per la morte nel 2014 per un tumore al cervello di un bimbo di cinque anni di Taranto, sei persone, dirigenti ed ex dirigenti dell’ex Ilva, saranno processati dal prossimo 2 ottobre.

    Lo ha deciso la Corte d’appello di Lecce accogliendo il ricorso presentato dal sostituto procuratore Mariano Buccoliero e dai familiari del bimbo contro la sentenza di non luogo a procedere del gup Pompeo Carriere del 12 luglio 2022.
    Per l’accusa gli imputati consentirono “la dispersione di polveri e sostanze nocive” con condotte che avrebbero contribuito a provocare “una grave malattia neurologica al piccolo”.

    Al bimbo, Lorenzo Zaratta detto Lollo, morto il 30 luglio del 2014, fu diagnosticato un tumore al cervello a soli tre mesi dalla nascita. Per l’accusa gli imputati avrebbero consentito “la dispersione di polveri e sostanze nocive provenienti dalle lavorazioni”, “omettendo l’adozione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali”.
    Condotte che avrebbero contribuito a provocare “una grave malattia neurologica al piccolo Lorenzo Zaratta che assumeva le sostanze velenose durante il periodo in cui era allo stato fetale”, sviluppando una “malattia neoplastica che lo conduceva a morte”.
    Gli imputati sono l’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso; l’ex responsabile dell’area parchi minerali, Marco Andelmi; il capo dell’area cokerie Ivan Di Maggio; il responsabile dell’area altiforni Salvatore De Felice; i responsabili delle due acciaierie Salvatore D’Alò e Giovanni Valentino. Nei confronti di altri due imputati, per i quali fu riconosciuto un errore nei capi d’imputazione, non è stato presentato ricorso. La Corte, invece, dovrà pronunciarsi a ottobre in merito all’impugnativa contro l’assoluzione (con la formula “perchè il fatto non sussiste”) di Angelo Cavallo, già responsabile dell’area agglomerato, unico imputato che scelse il rito abbreviato e per il quale il pm aveva chiesto la condanna a 2 anni e 4 mesi.

  1. giugno 8, 2021 alle 1:15 PM

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