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“Calamità innaturali”, una storia italiana.


Era già chiaro, per chi l’avesse voluto capire, come le “calamità naturali” tutto erano tranne che “naturali”.   Lo scriveva quasi quarant’anni fa Antonio Cederna, grandissimo ambientalista, giornalista, uomo di cultura.

E, purtroppo, non è cambiato niente. Anche oggi le calamità innaturali sono la quotidianità del Bel Paese.

Qui l’Archivio Cederna, una vera miniera di cultura.

Gruppo d’Intervento Giuridico

 

da Il Corriere della Sera, 3 gennaio 1973

Perché l’Italia frana quando piove.  Antonio Cederna

Un’Italia che frana e si sbriciola non appena piove per due giorni di fila, ecco l’immagine che subito ci propone il 1973, quasi a imporre alla nostra attenzione il problema di fondo e il più trascurato della politica italiana: la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica.

I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato: e tutti dovremmo aver capito che ben poco essi hanno di “naturale” poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti.

I “miracoli economici”, i boom edilizi, industriali e autostradali, sono avvenuti tutti al di fuori di qualsiasi programmazione di autentico e lungimirante interesse generale: abbiamo sistematicamente trascurato di realizzare tutta l’armatura dei servizi pubblici e delle attrezzature collettive (dalle scuole agli impianti di depurazione, dalle riserve naturali ai piani di bacino idrografico, dal verde pubblico ai trasporti collettivi, dal rimboschimento alla difesa dei litorali ecc.), indispensabili alle esigenze di vita della popolazione in un’epoca di sempre più veloci trasformazioni economiche e sociali. Gli eventi franosi sono due-tremila l’anno, con un morto ogni otto giorni: i geologi del Servizio di stato sono cinque, uno ogni dieci milioni di abitanti (mentre nel Ghana sono uno ogni settantamila). Sarebbe davvero strano che l’Italia non andasse periodicamente sott’acqua. Gli interventi pubblici sono saltuari, sono frammentari, non coordinati (nulla di decisivo è stato ancora fatto per il bacino dell’Arno, a sei anni di distanza dall’alluvione). Nel 1970 la commissione interministeriale De Marchi ha calcolato che per la difesa idraulica del suolo italiano occorrono 5300 miliardi nel prossimo trentennio. Ecco il costo dell’imprevidenza, i conti sbagliati della nostra economia, che ha puntato tutto sul tornaconto immediato e sul profitto.

Fino a che la difesa della natura e del suolo non diventerà la base della pianificazione del territorio, fino a che questo non sarà considerato patrimonio comune (anziché res nullius, come è stato finora), continueremo a contare le morti e le distruzioni. Ma intanto questa Italia, sempre pronta a invocare la propria “povertà” per non fare le cose indispensabili, ha stanziato la settimana scorsa altri cinquecento miliardi di lire per costruire nuove autostrade.