La “speculazione eolica” negli U.S.A.
Tutto il mondo è paese. Il banale richiamo della saggezza popolare spesso ricorda un po’ di verità. E’ certo il caso della speculazione eolica, uguale in tutto il mondo, sempre con le medesime modalità e con gli stessi fini. Riprendiamo per questo l’articolo di Steve E. Wright, pubblicato su The New York Times, edizione del 29 settembre 2011, ripreso da Eddyburg, con la traduzione di Fabrizio Bottini.
Gruppo d’Intervento Giuridico
Le ruspe sono arrivate un paio di settimane fa qui vicino, alle falde delle Lowell Mountains, e hanno cominciato a squarciasi la strada attraverso i boschi sino al crinale, dove la Green MountainPower ha in progetto di realizzare 21 turbine, alte complessivamente più di centocinquanta metri ciascuna all’estremità della pala.
Un sacrilegio, nel nome dell’energia “verde” che avviene qui in Vermont, nel Northeast Kingdom, in una delle principali aree boscose naturali di proprietà privata di tutto lo stato. Dove come accade in altri luoghi — per esempio in Maine o al largo di Cape Cod — il potere dell’energia eolica minaccia di distruggere paesaggi molto delicati. Costruire turbine per uno sviluppo di cinque chilometri di crinale, richiede strade — su un crinale, con alcuni tratti larghi quanto un’autostrada — in posti dove di solito le corsie per spostarsi le segnano l’orso, l’alce, il gatto selvatico o i cervi. Si devono modificare i profili della montagna perché ci si possano far arrivare le gru e i veicoli di servizio. Lo stanno facendo usando più o meno trecento chili di esplosivo, che ridurranno parti di queste cime a mucchi di sassi, da usare poi nelle strade di accesso. Si devono anche disboscare più di cinquanta ettari di pendii alberati, oggi accesi con magnifici colori dell’autunno. Ci sono ricerche che piegano come disboscare voglia dire più erosione, peggioramento della qualità delle acque sorgive, con meno vita nei torrenti, e acque meno buone per tutti a vale, umani e non. L’elettricità prodotta dal progetto non ridurrà di molto le emissioni di gas serra in Vermont. Che dipendono solo per il 4% dalla produzione energetica (quasi la metà viene invece da auto e camion, un altro terzo dal gasolio per il riscaldamento). Il vento non soffia sempre, e non lo fa a velocità ottimale, così la produzione di quelle turbine — il “fattore capacità” — è di circa un terzo dei 63 megawatt teorici. Al meglio, si produrrà a sufficienza per alimentare 24.000 abitazioni per un anno, secondo gli stessi proponenti. Ma il vento soffia sui crinali del Vermont.
Secondo il Public Interest Research Group, ad esempio, con l’energia eolia si potrebbe arrivare a coprire sino al 25% del fabbisogno di tutto lo stato, naturalmente estendendosi con le turbine su una cinquantina di chilometri di crinali. Altri sostenitori del vento, come David Blittersdorf, massimo esponente di una impresa privata del settore a Williston, arrivano a proporre addirittura di metterne su trecento chilometri di crinale. Queste sono le stesse Green Mountain che sono state visitate da quasi 14 milioni di persone venute qui in Vermont solo nel2009, aspendere un miliardo e mezzo di dollari nel turismo. Montagna che fanno parte della nostra identità, non a caso siamo lo Stato delle Montagne Verdi, che ci danno aria e acqua pura, flora e fauna.
Il Vermont ha una gloriosa storia di efficace tutela dell’ambiente naturale, che oggi viene accantonata. Questo progetto è on orribile precedente, che devasta un sistema perfettamente sano e intatto, con la scusa di intervenire contro il cambiamento climatico.
In cambio, la Green MountainPower ci guadagna 44 milioni di dollari in crediti fiscali federali su 10 anni. Proprio strano che i gruppi ambientalisti dello Stato non abbiano preso posizione su questo progetto ecologicamente devastante. A quanto pare, non vogliono intralciare lo sviluppo delle energie “verdi”, e non importa quanta distruzione incomba così quanto in Vermont conta di più: il paesaggio che fa di noi ciò che siamo. Inseguire così progetti altamente impattanti è un terribile errore di prospettiva e programmazione, un equivoco su come dovrebbe agire una società responsabile che vuole rallentare il riscaldamento del pianeta. É anche non voler proprio capire il valore del paesaggio, per l’identità e l’economia futura del Vermont.
(disegno The New York Times, foto da www.windoweb.it, da mailing list ambientalista)
e qui, invece, il virtuoso “ponte solare” dei Blackfriars, a Londra: http://www.eddyburg.it/article/articleview/17761/0/284/
Le centrali eoliche (meglio non chiamarle parchi, ché sono installazioni industriali a tutti gli effetti) sono il pericolo maggiore (sottovalutato) per l’ambiente sardo (e, più in generale, di tutte le aree montuose), proprio perché l’apparenza ecologista di queste installazioni viene abilmente usata dagli speculatori e dalle sottomesse e succubi amministrazioni comunali per “sdoganarle” presso la pubblica opinione e le popolazioni, nascondendo abilmente il loro devastante impatto.
Ma non basta certo il fatto che la produzione di energia avvenga senza emissione di CO2 per compensare la compromissione irreversibile di ecosistemti e paesaggi arrivati integri fino ai giorni nostri, un patrimonio che in Sardegna è importante almeno quanto quello degli ambienti costieri.
A proposito di coste, per i radar costieri si è giustamente creato un notevole allarme per il danno paesaggistico e per le possibili conseguenze delle emissioni elettromagnetiche ad alta frequenza.
Ma in confronto all’impatto di una centrale eolica quello di uno degli apparati radar contestati è di diversi ordini di grandezza inferiori, da tutti i punti di vista: paesaggistico (una torre eolica è alta quasi cento metri e le pale hanno un diametro più o meno della stessa lunghezza, il che le rende visibili anche a 60-70 Km di distanza, la centrale di Ulassai è visibile da tutte le alture del cagliaritano, tanto per fare un esempio), di dissesto idrogeologico (nelle montagne del Grighine sono state aperte piste sui versanti per una ventina di Km), di alterazione e consumo dei suoli, di distruzione della vegetazione, di alterazione degli habitat, di pericolo per l’avifauna.