Come avvelenavamo la nostra Terra, a Porto Torres.
Illuminante intervista a un operaio che ha lavorato al polo petrolchimico di Porto Torres. In fondo, per questi decenni di inquinamento e di danni alla salute pubblica, non ha pagato nessun responsabile.
Buona lettura.
Gruppo d’Intervento Giuridico
da La Nuova Sardegna, 25 settembre 2011
«Così abbiamo riempito la terra di veleni». Parlano i vecchi operai del Petrolchimico: «Non avevamo alcuna coscienza ambientalista». Per gli indumenti avevo una lavatrice a parte, le scarpe mi duravano tre giorni: benzene e solventi scioglievano le suole. Luigi Soriga
PORTO TORRES. I veleni di Minciaredda non solo sprofondano sottoterra e inquinano le falde acquifere, ma si insinuano anche negli interstizi delle coscienze. Chiunque abbia lavorato nel Petrolchimico dagli anni Settanta agli anni Ottanta, coltiva un suo personale rimorso. Aver contaminato un pezzo di futuro dei propri figli, anche se con assoluta innocenza, è un peso dal quale non ci si libera. Perché tutti gli operai, all’epoca della Sir e dell’Enichem, erano gli ingranaggi inconsapevoli di una straordinaria macchina di inquinamento.
Angelo Dedola negli impianti di Rovelli, è entrato che aveva 24 anni. Ora ne ha 63, e parla di quell’esperienza come se sopra si fossero accatastati secoli e generazioni lontane. Invece era appena il 1972, le grandi ciminiere sbuffavano sul Golfo dell’Asinara, la torcia d’emergenza era sempre accesa e l’ecologia era una parola spenta. «Il mio primo stipendio lo spesi così. Una lavatrice Naonis, superautomatic Pn5: il meglio sul mercato». Lavorava nel settore aromatici, il più inquinante, dove il benzene scorreva a fiumi. L’odore di idrocarburi, attorno agli impianti, non era una semplice puzza, aveva una densità fisica, si spalmava addosso come una seconda pelle. «Quando consegnavo a mia madre gli indumenti da lavoro, la tuta e le magliette dovevano essere lavati a parte, altrimenti impregnavano ogni cosa. Ecco perché ho comperato una lavatrice a parte». Tute protettive, caschetti, scarpe antinfortunistiche, guanti e mascherine, sono arrivati solo una quindicina di anni fa, quando la gestione del Petrolchimico passò nelle mani di Polimeri Europa. «Io cambiavo le scarpe ogni tre giorni. Mia madre mi diceva: figlio mì, com’è possibile? Te le ho date avantieri. Il fatto è che la suola in caucciù dopo un po’ si scioglieva sotto i piedi, perché camminavamo su un terreno intriso di benzene e di solventi chimici. Eravamo degli sprovveduti, non sapevamo niente. Ci fidavamo dei nostri capi, che erano più anziani e che invece erano più ignoranti e incoscienti di noi».
Molti operai, che non avevano a casa una Naonis Pn5, ricorrevano al lavaggio rapido: immergevano le tute dentro il benzene e le tiravano fuori nuovamente candide e immacolate, senza un alone di grasso. «Non avevamo la minima idea di cosa stessimo maneggiando, non conoscevamo i prodotti, non sapevamo degli effetti cancerogeni, non ci proteggevamo. Solo a distanza di anni ci siamo resi conto di cosa abbiamo rischiato e dei danni che abbiamo fatto. Ma ormai era tardi». E quando nel 2003 gli indipendentisti di Gavino Sale scoperchiarono il pentolone di Minciaredda, la reazione degli operai fu questa: «Embè, bella scoperta». E anche ora che le analisi del sottosuolo parlano di falde acquifere avvelenate e di inquinamento irreversibile per 30 chilometri quadrati, non si stupiscono più di tanto. Perché hanno visto con i loro occhi quel che succedeva al petrolchimico in decenni di deregulation ambientale, e hanno finalmente capito che la natura non poteva avere uno stomaco indistruttibile capace di digerire tutto. «L’unica regola era che la macchina produttiva non doveva fermarsi mai e gli impianti dovevano marciare ad ogni costo. E noi obbedivamo a questo principio, perché la Sir, Montedison e poi Enichem erano quelli che ci davano da vivere». Così se dentro un serbatoio di benzene si creava condensa e bisognava togliere l’acqua, non c’era il tempo per interrompere le attività. Si apriva un rubinetto e si spurgava nel piazzale. E se si inceppava una valvola, non si poteva fermare la produzione per un’accurata manutenzione. I guasti si riparavano in fretta, poi ci pensava la terra ad assorbire i rigurgiti industriali. «C’era un serbatoio in acciaio, dove ora è stato realizzato il campo di calcio, che non si riusciva mai a riempire. Sarei curioso di assistere ai prelievi del suolo – dice Angelo Dedola -, le aree degli ex impianti aromatici sono delle spugne che hanno trattenuto qualunque sostanza».
Ci passava il benzene saturo e insaturo, 700 tonnellate al giorno, l’odore acre riempiva l’olfatto. «Le navi lo scaricavano dentro i serbatoi, noi lo trattavamo e lo inviavamo agli altri settori per le successive lavorazioni». Solo che le linee di processo spesso erano interrate e in quei tratti non si potevano scorgere eventuali perdite. Il livello dei serbatoi si misurava a mano, non c’erano allarmi o doppi fondi, dunque era impossibile accertare le fuoriuscite di sostanze, a meno di falle consistenti. E poi la rete fognaria era un colabrodo: «Quando sette anni fa è stata rifatta, i tecnici si sono accorti che i tubi erano marci. Ma nei pozzetti finivano anche la sporcizia dei pavimenti e i liquidi industriali». Poi, quando c’era da risistemare un impianto, con le manutenzioni grosse, la discarica di Minciaredda spalancava la bocca e trangugiava tutto.
Era un sito di smaltimento autorizzato dalla Regione, scavato all’interno del Petrolchimico, che per 25 anni si è ingozzato di ogni tipo di veleno industriale, fino a contenere 50mila tonnellate di rifiuti speciali. Era il 1976 e Mario, che adesso passa le giornate in barca e ha la pelle conciata dal sole, a quell’epoca aveva 27 anni, guidava un camioncino rosso sgangherato, e rimbalzava da un impianto all’altro. Faceva un rudimentale porta a porta: «Mi lasciavano la roba nei piazzali: c’erano bidoni pieni di oli pesanti, contenitori con sostanze catramose, oppure bustoni con immondizia, amianto, lana di vetro, residui delle turbine. Io in verità non sapevo con precisione cosa contessero i sacchi, e non mi facevo troppe domande. Sapevo che era tutto in regola, che c’erano i permessi, che bisognava gettare in discarica». Allora Mario calava la gruetta, agganciava i rifiuti e li depositava sopra il cassone del suo mezzo. Così sino ad arrivare a Minciaredda.«Lì, all’ingresso, c’era una garitta con una guardia, dava un’occhiata alle bolle d’accompagnamento, dopodiché io inclinavo il cassone e scaricavo tutto per terra. Poi arrivava la benna che trascinava il cumulo nella conca, dava un paio di colpi, compattava e filava via». Si dice che in mezzo a quei rifiuti anche i gabbiani ci lasciassero le penne. Avanti così per 25 anni, finchè quello scavo non si è trasformato in un collinetta imbottita di veleni e percolato. Una bomba ecologica di tale portata che ora è quasi impossibile da disinnescare.
E qui nasce il rimpianto, perché la conta dei danni arriva troppo tardi. «Già con la gestione Polimeri, 15 anni fa, la mentalità era cambiata – dice Angelo Dedola -. C’era una coscienza ambientalista, nuove leggi e si differenziavano i rifiuti, c’erano le protezioni da lavoro. Quando abbiamo consegnato il testimone alla nuova generazione di operai, questi erano come figli, nati dalla nostra esperienza negativa: da quel brutto capitolo avevano imparato a rispettare la natura e se stessi. Sono diversi da noi, ora rischiano di pagare per i nostri errori». Infatti la chimica di base è morta, Eni ha chiuso i rubinetti, e i ragazzi della Vinyls sono l’ultimo capro espiatorio per il peccato originale dei loro padri.
(foto Provincia di Sassari, Skyscraper City – Porto Torres)


da La Nuova Sardegna, 24 aprile 2012
Inquinamento a Porto Torres, la Regione si costituisce parte civile.
I rappresentanti legali di Syndial, Sasol Italia e Vinyls Italia sono accusati di disastro ambientale: http://lanuovasardegna.gelocal.it/sassari/cronaca/2012/04/24/news/inquinamento-a-porto-torres-la-regione-si-costituisce-parte-civile-1.4413918
da La Nuova Sardegna, 28 aprile 2012
Veleni a Porto Torres Regione e ministero: «Saremo parte civile».
Marea di istanze, dal Comune di Stintino ai cittadini, contro quattro dirigenti di Ineos, Vinyls, Sasol e Syndial. (Elena Laudante)
SASSARI. Per la prima volta il territorio può confrontarsi ad armi pari con i colossi della Chimica, sotto accusa per aver inquinato irreparabilmente il mare di Porto Torres. Ecco perché, come un fiume che si alimenta nel suo percorso, a ogni udienza del processo a quattro dirigenti Ineos Vinyls, Sasol e Syndial (gruppo Eni) aumentano le richieste di cittadini, comitati e associazioni di costituirsi parte civile. E diventare controparte, sullo stesso piano davanti alla Legge, dei padroni del Petrolchimico. Questo raccontano le istanze presentate alla Corte d’Assise che giudica reati gravi, mai contestati prima in Sardegna, come il disastro e l’avvelenamento dolosi: siamo a quota 40. Dopo le richieste presentate lo scorso 5 marzo (Provincia, Comune di Porto Torres, fratelli Polese e ambientalisti dell’Anpana erano già costituiti in udienza preliminare), ieri mattina si è fatto avanti l’Avvocato dello Stato per conto della presidenza del Consiglio e del ministero dell’Ambiente, e poi il legale della Regione, che dopo due udienze ha rotto gli indugi, e ancora Legambiente, Wwf Italia, il “Comitadu a Difesa de D’Etnia Sarda” di Doddore Melone, ieri tra il pubblico, e il Comitato per la salvaguardia delle coste del nord Sardegna. Si aggiungono a tanti altri, dal Comune di Stintino ai dipendenti di una ditta della darsena chiusa per inquinamento, la Europa servizi ecorifiuti (legale Mario Tambasco) e il titolare Raffaele Rais (difeso da Antonella Puggioni): sul diritto a partecipare al dibattimento da parti lese si esprimerà la Corte – presidente Pietro Fanile, a latere Teresa Castagna – all’udienza del 29 giugno (termine ultimo per presentare altre richieste), per poi proseguire con le eccezioni preliminari il 6 luglio. Questioni che si annunciano complesse, e potrebbero puntare a mettere in discussione uno dei perni del processo, la contestazione di reati dolosi. La cronaca dell’udienza di ieri deve iniziare, però, con una nota sulla logistica. Nell’aula d’Assise piena di toghe in piedi, il legale Agostinangelo Marras ha chiesto e ottenuto di far portare in aula lunghi banchi per chi non aveva trovato posto. Poi però le parti si sono incartate in spinose questioni preliminari, che pure potrebbero gettare un’ombra lunga sull’intero procedimento. Il 3 marzo i giudici avevano rivelato di non riuscire a notificare l’atto di chiamata come responsabile civile (paga i danni in caso di condanna)al rappresentante legale Ineos Vinyls, nel frattempo divenuta Vinyls ed entrata in amministrazione straordinaria. Il suo commissario, Mauro Pizzigati – colpito “in proprio” dalla prima notifica – ha scritto alla Corte una lettera molto chiara: non sono rappresentante legale della Ineos Vinyls, accennando ad eventuali vizi di nullità che una notifica sbagliata può avere sul processo. Si paventa uno scenario assurdo, che il pm Michele Incani ha cercato di prevenire chiedendo nuove notifiche: il processo potrebbe essere spazzato via persino in Cassazione, anche dopo eventuali condanne, se quel rituale di notifica non dovesse essere compiuto correttamente. La Corte ha ascoltato però Carlo Federico Grosso (difensore Syndial) nel ritenere valida la comunicazione già recapitata. Altro disguido aveva portato a citare tra i responsabili una società, la Krotos 2000, quale successore nella proprietà dell’area Sasol. Una svista. Sasol dovrà essere citata di nuovo, entro il 29 giugno.
da La Nuova Sardegna, 10 luglio 2012
Porto Torres, processo tutto da rifare per l’inquinamento del mare.
La clamorosa decisione della Corte d’assise di Sassari sul disastro ambientale: nullo il rinvio a giudizio di 4 imputati: http://lanuovasardegna.gelocal.it/sassari/cronaca/2012/07/09/news/porto-torres-processo-tutto-da-rifare-per-l-inquinamento-del-mare-1.5382132
da La Nuova Sardegna, 9 maggio 2013
L’INCHIESTA » I VELENI DI PORTO TORRES. Perizia sul Petrolchimico: «Benzene? Eni inefficace». Cinque esperti nominati dal giudice confermano che l’inquinamento è in corso Società bacchettata per una “emergenza” durata 12 anni: grave contaminazione. Il legale del gruppo «Nessun commento aspetto l’udienza». (Elena Laudante)
SASSARI. «Al momento non siamo in grado di fare osservazioni alla perizia appena depositata, perché io stesso devo approfondire il contenuto dell’eleborato con il resto del pool difensivo. Per esprimermi, preferisco attendere l’udienza del 29 maggio, anche per rispetto al giudice». È stato questo l’unico commento rilasciato dal legale che in Sardegna tutela gli interessi del gruppo Eni, l’avvocato Piero Arru. Assieme ad altri colleghi, difende gli otto dirigenti Syndial e Polimeri Europa iscritti nel registro degli indagati dal pm Paolo Piras, per l’ipotesi di aver «cagionato un disastro ambientale – è l’accusa – e non aver adottato cautele per evitare che sostanze inquinanti venissero sversate in mare». Il 27 maggio i 5 periti si confronteranno con i consulenti dell’Eni nell’udienza davanti al gip Antonello Spanu.
SASSARI Le misure adottate finora per rimuovere gli agenti inquinanti dal suolo e dalle falde «non sono state idonee, a distanza di 12 anni, nemmeno a contenere la diffusione delle acque contaminate e a impedirne il contatto con il mare, che quindi è stato progressivamente inquinato». Bisognerebbe pubblicarle tutte le 518 pagine della perizia del Tribunale, per capire quanto sono compromesse la terra del petrolchimico di Porto Torres, e il mare della sua Darsena. I cinque esperti nominati nell’inchiesta penale per disastro ambientale a carico di Syndial e Polimeri (oggi Versalis), attestano qualcosa che in fondo tutti sapevano. E cioè che l’area attorno all’impianto riconducibile al gruppo Eni, compresa l’acqua che scorre nel sottosuolo, è intaccata da concentrazioni di benzene che arrivate ad essere 90mila volte superiori alla soglia di contaminazione delle acque di falda (Arpas, maggio 2011). Ma dicono pure, i consulenti super partes, che lo sappiamo da dodici anni, e che il gestore di questa prima fase di risanamento, cioè Syndial e Polimeri, hanno elaborato “misure di messa in sicurezza d’emergenza” che sono servite a ben poco. Soprattutto perché quest’”emergenza” è stata lunghissima, «inefficace e inefficiente», si legge nella relazione depositata martedì pomeriggio. Ora sulla base di questa analisi, il pm Paolo Piras dovrà prendere la sua decisione, cioè chiedere o meno il processo per otto manager sotto inchiesta. E far finire, così, sotto processo, il gigante della Chimica. I terreni su cui insiste lo stabilimento sono risultati contaminate a varie profondità già dal 1997, all’entrata in vigore della norma sulle bonifiche. «E non furono oggetto all’epoca, né successivamente, di alcun risanamento», ricordano i consulenti. È ovvio che «le acque sotterranee provenienti da monte idraulico e quelle meteoriche, filtrando nei terreni inquinati, continuano a svolgere indisturbate la loro opera di estrazione, trasportando a mare la parte di inquinanti progressivamente lisciviata», cioè rimasta nel suolo. Fenomeno, in riferimento ai terreni sul mare, che «prosegue tutt’ora». E non potrebbe essere diversamente, perché la fonte dell’inquinamento è lì, immutata, visto che nessuno ha bonificato il suolo che è come una spugna: ha incamerato agenti inquinanti negli anni e pian piano li rilascia al mare, attraverso le falde. I periti Colombo, Sanna, Felici, Santilli e Grego, ripercorrono l’avvicendamento alla guida degli impianti a partire dal 1982, poi ricordano i primi studi di caratterizzazione e il piano di messa in sicurezza targato Eni, fino alla creazione di una barriera con pozzi per arginare l’arrivo al mare. «La fine della attività appare legata – chiariscono – a motivazioni di natura tecnologica e di mercato, non ad esito di individuazione delle sorgenti di inquinamento per la loro eliminazione o intercettazione così da impedire l’incremento continuo della contaminazione», si legge. Anche per questo la “messa in sicurezza di emergenza”, annunciata dal gestore nel 1998, divenuta operativa solo nel 2003 con la barriera, «non essendo finalizzata alla bonifica dei suoli inquinanti, non è riuscita allo scopo. Le acque nel tempo hanno continuato e continuano a trasportare gli inquinanti a mare. L’inefficacia e inefficienza delle misure adottate è anche più eclatante considerato il tempo trascorso dalla loro realizzazione come messa in sicurezza di emergenza, che proprio per la loro natura sarebbero dovute risultare – al contrario – efficaci ed efficienti, e a breve termine», chiariscono. Quanto all’epoca dell’iniziale diffusione delle sostanze, fondamentale per ricondurre ad uno dei tanti soggetti l’eventuale responsabilità, gli esperti chiariscono che è impossibile andare a ritroso: «Il fenomeno può riferirsi a sversamenti accidentali insidiosi perché in vaste aree del sito, e soprattutto nelle zone più sensibili come quelle di contenimento di molti grandi serbatoi, manca la pavimentazione». Sul monitoraggio di questi serbatoi, l’analisi diventa quasi monito. Sottolinea che «per alcuni serbatoi, l’intervallo tra due monitoraggi successivi ha una frequenza anche di sette anni, in altri casi non si riscontra monitoraggio prima del 2009-2010, molto tempo dopo che la contaminazione del suo lo era fatto acclarato». Per dare la cifra di questa anomalia, basti ricordare quello che accade in altri impianti simili, che oggi devono ottenere dal ministero dell’Ambiente l’Autorizzazione integrata ambiente. In circa 200 stabilimenti italiani analoghi al petrolchimico, «il monitoraggio della tenuta del fondo dei serbatoi ha cadenza biennale», non supera mai i 5 anni. E per prevenire le infiltrazioni, si realizzano i doppi fondi nei serbatoi attivi. «L’unico dato certo – sintetizzano i periti – è l’assenza di azioni che abbiano nel concreto impedito la prosecuzione della contaminazione». «È ancor più grave – scrivono i periti – se si pensa che gli interventi di messa in sicurezza per rimuovere fonti di contaminazione» secondo la legge, sono tali proprio perché devono essere attuati tempestivamente. Nulla invece, è stato fatto per il suolo. «Non risulta posta in essere alcuna misura».
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IL FASCICOLO DEL PM. Otto i manager indagati per disastro ambientale.
SASSARI L’inchiesta sull’inquinamento nella Darsena davanti al petrolchimico di Porto Torres è condotta dal sostituto procuratore Paolo Piras, che ha aperto un fascicolo per disastro ambientale colposo e deturpamento di bellezze naturali. Al giudice delle indagini preliminari aveva chiesto una perizia, nell’ambito di un incidente probatorio, per capire se gli impianti ancora attivi della struttura causino ancora l’inquinamento dell’area, e quali siano le misure per contrastarlo. Nel registro degli indagati ci sono il rappresentante legale di Syndial Spa Alberto Chiarini, il responsabile gestione siti da bonificare Francesco Papate, il responsabile Taf Management (Taf è l’impianto per il trattamento acque di falda) Oscar Cappellazzo, il responsabile area operativa Taf Gian Antonio Saggese, il responsabile salute, ambiente, sicurezza del Taf Francesco Leone, il rappresentante legale di Polimeri Europa Daniele Ferrari, il direttore di stabilimento Paolo Zuccarini e il responsabile della sezione Hse (salute, sicurezza, ambiente), Daniele Rancati.
da La Nuova Sardegna, 25 luglio 2013
No alla nuova perizia sull’inquinamento dell’ex petrolchimico. Il gip respinge la richiesta di altre analisi sulle conseguenze per l’ambiente provocate dall’unico impianto attivo. «Questione complessa, non c’entra con l’oggetto di questa inchiesta». (Elena Laudante)
SASSARI. La nuova richiesta del pm sembrava quasi scontata, anche perché una parte della risposta era addirittura stata anticipata dal pool di consulenti nella perizia da 400 pagine sull’inquinamento della darsena di Porto Torres. Ma il giudice delle indagini preliminari ha stabilito che un ulteriore accertamento sull’eventuale inquinamento che produce oggi il petrolchimico dell’Eni (sotto accusa Syndial e Versalis), non è necessario. Il gip Antonello Spanu ha respinto, con una ordinanza di due pagine, la richiesta del pm Paolo Piras di incaricare ai periti due nuovi quesiti. Voleva capire se a parte il benzene rilevato oltre la barriera idraulica posta da Eni a freno delle acque che scorrono nel sottosuolo fino al mare, anche l’unico impianto in funzione oggi – quello che produce elastomeri – causa inquinamento. E poi di stabilire quali bonifiche Eni debba compiere per risanare «definitivamente l’area inquinata». Ma il giudice, impegnato in un incidente probatorio con audizioni di tecnici durate giorni interi, ha cassato la perizia-bis, come chiesto dai legali dell’Eni, Carlo Federico Grosso, Piero Arru e Luigi Stella, presenti nell’udienza di martedì. Per la procura della Repubblica, una piccola doccia fredda. Mentre i legali dell’Eni interpretano l’ordinanza come un punto a loro favore, che ne ha recepito gli argomenti. Ma nelle due pagine d’ordinanza, il gip spiega perché nuove analisi non sono necessarie, non in questa inchiesta su un oggetto molto preciso: individuare le responsabilità per la massiccia presenza di benzene nella darsena del porto, nonostante la presenza di una barriera idraulica che secondo Eni dovrebbe impedire alle sostanze filtrate nel terreno di raggiungere il mare. Secondo i cinque periti nominati dal gip, la presenza di benzene e di altri inquinanti è dovuta al trasporto da parte delle acque di falda che defluiscono a mare, dopo aver attraversato il terreno contaminato del sito industriale. Ma sulla riconducibilità di tale inquinamento alle produzioni attuali, ricorda il gip, «il perito Nazzareno Santilli ha precisato che “l’unità elastomeri (l’unica attiva, ndc) è molto piccola…sia come estensione di terreno sia come tipologia di materiali, di materie prime”. Tra le materie in questione – chiarisce il giudice – non c’è il benzene». Ma è lo stesso Santilli che in aula spiega come molte delle unità ormai fuori servizio, a partire dal 2011, utilizzassero alcune delle sostanze che sono stare rinvenute proprio nell’inquinamento, sia nel suolo che nella falda. La conclusione è che i periti non hanno avuto evidenza, sulla base dei controlli e dei sopralluoghi, di dispersioni in corso da linee di produzione ancora attive, sicché l’individuazione di eventuali fonti occulte di possibili attuali dispersioni nel sito è indagine di tale ampiezza, genericità e complessità, che appare allo stato estranea non solo al particolare oggetto dell’incarico peritale, ma anche alle concrete capacità operative degli ausiliari nominati». Quanto alle bonifiche, il discorso è simile. Capire come il territorio debba essere ripulito è «attività amministrativa di natura complessa, caratterizzata dal confronto tra amministrazione pubblica, enti, organi locali di controllo e gestione». Per un sito di interesse nazionale, come quello di Porto Torres, è competenza del ministero dell’Ambiente. «È evidente – scrive il giudice – che tale compito non può essere rimesso ai periti nominati nel presente procedimento, superando le specifiche competenze stabilite per legge». I legali dell’Eni avevano paventato pure il rischio di un conflitto d’attribuzione, col ministero dell’Ambiente, nel caso il gip avesse detto sì ad una perizia sulle bonifiche. In udienza, hanno depositato uno studio sulle tecniche di progettazione e bonifica, non è chiaro se quale “dichiarazione di intenti”. Ora che l’incidente probatorio è chiuso, con i periti che mettono sotto accusa l’Eni, contraddetti dai suoi consulenti, spetta al pm decidere se chiedere il processo per gli 8 manager indagati, oppure archiviare l’inchiesta.